Barbara Bonomi Romagnoli | 13 febbraio e dintorni…fino all’8 marzo
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13 febbraio e dintorni…fino all’8 marzo

Il 13 febbraio sono scesa in piazza per curiosità e non per convinzione. Non mi piaceva l’appello e mi è dispiaciuto il modo in cui da più parti si è liquidato il dibattito scaturito subito fra chi aderiva e chi no, uno scambio d’idee secondo me interessante e ricco di stimoli, sorto anche in luoghi non sospetti come può essere un quotidiano come il Corriere o nei bus che attraversano la città, animato da donne di diversa età e provenienza.

La sensazione che ho avuto è che sia stato un confronto sottovalutato, mentre avrebbe avuto senso amplificarlo, comunicarlo maggiormente all’opinione pubblica, renderlo manifesto per quello che era. Ovvero una discussione che ciclicamente riemerge, anche con toni accesi o conflittuali, che va avanti da tempo, perché – come è stato detto da più parti – le femministe non sono state zitte né tanto meno disattente.

Molte, fra le amiche e compagne più convinte di me, hanno invece pensato che fossero discorsi fra le solite femministe snob ed elitarie, le teoriche che si tolgono dalla mischia. Ecco, penso che questo sia stato uno degli errori di quella giornata. Perché se è vero che c’era bisogno di riprendere parola pubblica – da questo punto di vista è stato un indubbio successo e sono contenta per chi ci ha creduto più di me – dall’altro non si può ingenuamente far passare la vulgata che basta la sciarpa bianca a creare il collante o che non fossero importanti i contenuti con cui si scendeva in piazza. Molti degli argomenti che ho sentito non mi appartenevano, mi erano distanti.

È stata una sensazione spiazzante, arrivare a Piazza del Popolo e sentir a pelle un forte senso d’estraneità. Sì certo, c’erano donne con cui condivido idee e politica da anni, sconosciute e giovani con le quali potrei avere molto da dire, ma ce n’erano altrettante con cui non condivido nulla oltre al visibile dato biologico o al fatto che come me non vogliono (o non vogliono ora) Berlusconi. Ecco, avrei preferito che si dicesse che era una piazza per mandare a casa il governo. In quel caso e considerato in che situazione versa il nostro paese, mi sarei fatta meno problemi a manifestare vicino a tante piccole Santanchè o avrei potuto ascoltare con meno fastidio la lezioncina di etica di Bongiorno.

Altro è parlare di dignità delle donne. Anche perché così genericamente buttata là mi è sembrato un ennesimo discorso neutro, un pacato e sereno discorso politicamente corretto, di veltroniana memoria, lanciato da donne che si saranno pure stufate, o che finalmente avranno aperto gli occhi, ma che non hanno nulla da dire a chi da anni cerca di cambiare l’immaginario e le culture che nutrono la nostra società sessista. Donne che non sono disposte ad ascoltare percorsi diversi dai loro, curioso soprattutto per le più grandi che dal femminismo provengono.

L’appello era scritto con una lingua di fatto conservatrice che non è nel mio orizzonte, che non vorrebbe esserlo più, altrimenti ci si accontenta, e non si gode, nel senso di gioire per un desiderio che si avvera o una rivoluzione che si mette in moto davvero. Ascoltando e leggendo la distinzione fra donne perbene e donne permale – anche questa minimizzata – o a sentir parlare di soglia della decenza superata, mi è tornato in mente quando nel 2007 si cercò di mettere su la “cosa rossa”. Anche allora mi chiesero, come giovane femminista precaria, cosa ne pensassi. Risposi che non sapevo che farmene, non mi piaceva il contenitore e non ne capivo i contenuti.

Mi è accaduta la stessa cosa leggendo l’appello di “Se non ora quando”, ma la delusione è stata maggiore. Perchè da anni con tante altre donne lavoriamo per far passare i contenuti radicali che il femminismo ha consegnato anche a noi più piccole, perché se accettiamo sempre la logica del male minore non andiamo da nessuna parte, perché se non alziamo noi la posta in gioco, resteremo intrappolate negli stessi stereotipi e pregiudizi che vorremmo combattere, perché di fatto a catalizzare la grande partecipazione al 13 è stato il messaggio – lanciato chiaro e forte – che ci sono delle donne che si sacrificano per la loro vita e quella della loro famiglia e altre che vendono il loro corpo e basta.

La realtà è molto più complessa e lo sappiamo. Mi rifiuto di mettere sullo stesso piano Minetti o Ruby, che usano la loro bellezza e il loro corpo per avere potere e denaro, e le donne che liberamente e senza pretesa alcuna usano il loro corpo diversamente da come vorrebbe la morale cattolica, borghese o moderatamente di sinistra. La Minetti o chi per lei equivale, per quanto mi riguarda, a tante altre donne che senza necessariamente prostituirsi agiscono potere sulle altre donne, fanno della femminilità un abito ambiguo e spesso autoritario.

Accettare di annullare le differenze anche fra noi donne, per una presunta causa di forza maggiore fosse anche il berlusconismo, rischia di creare un pensiero unico femminile che è molto pericoloso oltre a fare il paio con il pensiero maschile dominante.

Questi sono i motivi per cui il 13 febbraio non mi resterà nel cuore. Ma sono ottimista e voglio sperare che dopo l’8 marzo, che non sfugge a retoriche sulla presunta femminilità e improbabile sorellanza o su sante alleanze di ogni tipo, venga un 6 maggio in cui a dominare sia il rosso e non il bianco. Perché se le piazze del 13 aderiranno allo sciopero generale e lo riempiranno di contenuti femministi davvero faremo un passetto avanti. Perché se si fermano le donne, davvero si ferma il paese. E ne avremmo tanto bisogno, per riprendere in mano il futuro nostro e di chi ci sta accanto.

pubblicato su Il paese delle donne on line, http://www.womenews.net



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