Barbara Bonomi Romagnoli | CO-working, CO-sharing, CO-city, COoperazione, idee per cambiare il mondo: una Ted a Torino
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CO-working, CO-sharing, CO-city, COoperazione, idee per cambiare il mondo: una Ted a Torino

Torino è la città italiana che più di tutte ha raccolto il testimone delle Ted Conference, ideate nei primi anni Ottanta nella Silicon Valley per andare a scovare “idee che meritano di essere diffuse”. L’edizione di febbraio 2018 ha privilegiato il prefisso “CO” declinandolo in CO-working, CO-sharing, CO-city, COoperazione sociale e molto altro, per mettere al centro il tema della ‘collaborazione’, del fare insieme, come chiave di volta per la lotta alla povertà, la promozione della pace, la difesa dei diritti e la costruzione dello sviluppo sostenibile.

Una sfida ambiziosa alla quale hanno risposto molte donne – fra queste Surya Bonaly, la pattinatrice franco-americana che ha infranto le leggi olimpiche con il suo salto mortale all’indietro – e tutte chiamate a raccontare le loro esperienze e le loro idee per “cambiare il mondo”. A cominciare dal mondo dell’istruzione, dove vengono formate le nuove generazioni. «La didattica partecipata intende coinvolgere nella produzione del sapere istituzionale il mondo vivo che lo circonda. Non si tratta di immaginare “testimonial” sporadici ma piuttosto far incontrare docenti e attori sociali prima delle lezioni per pensare insieme al senso di quella formazione e di quell’oggetto di studio, impostare i programmi, cambiare le etichette delle discipline e dei corsi, e poi invitare studenti e studentesse a immaginare il mondo e a discuterne»: ne è convinta Vincenza Pellegrino docente di Politiche Sociali e di Sociologia della Globalizzazione all’università di Parma, dopo un lungo periodo di volontariato internazionale in Repubblica Centrafricana.
«È l’idea che ‘insegnare’ non sia tanto ripetere teorie e parole, ma accompagnare all’incontro e al saper stare in maniera riflessiva dentro gruppi, conflitti, vita quotidiana – aggiunge Pellegrino – È una visione diversa dell’università come dispositivo per costruire una comunità diffusa di riflessione e apprendimento, attraverso la quale poi fare ricerca sociale, perché come ci ha insegnato anche il pensiero critico femminista si insegna e si ricerca insieme ai soggetti, non sui soggetti, che non sono mai neutri». Per questo Pellegrino si occupa molto di femminismi postcoloniali, di soggettività femminili in cambiamento e di modi diversi delle donne migranti e autoctone di pensare all’emancipazione femminile.
Qual è la sua idea per cambiare il mondo? «È una domanda impegnativa – risponde Pellegrino – ma credo che sia possibile usare gli spazi di movimento che abbiamo all’interno dei nostri ruoli professionali e non, per mostrare che la realtà offre già margini di futuro impensati. Spesso il pensiero su ciò che è ‘probabile’ ci sovrasta e ci impedisce l’assunzione della responsabilità. La docenza, i processi di formazione dei giovani, sono un esempio perfetto. Vi è un margine ampio di libertà nell’organizzare i percorsi di formazione. Cosa accadrebbe se le scuole tutte (non solo l’università) scendessero nel mondo e favorissero processi collettivi costanti di confronto tra le età diverse, di incontro fra classi sociali continuamente segregate e separate?». Non è un interrogativo che cade nel vuoto, quello di Pellegrino. A Venezia c’è chi è entrata in una delle istituzioni separare per eccellenza: il carcere.
Liri Longo, di formazione antropologa, è la presidente della cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri che si occupa di formazione e inserimento lavorativo in carcere, luogo che è «anche un interessante laboratorio di convivenza e contaminazione tra culture, perché varie e diverse sono le provenienze delle persone detenute (In Italia i detenuti e le detenute stranieri sono circa il 30% del totale). Cerchiamo di superare le difficoltà linguistiche e abbiamo cercato di valorizzare questa ricchezza all’interno dei percorsi di riabilitazione perché le differenze offrono interessanti opportunità di educazione al rispetto reciproco». Anche alla Giudecca esiste un progetto simile con le detenute eppure non è mai stato possibile un workshop comune: «È del tutto impraticabile, sia perché sono due carceri diverse nella stessa città sia perché non è ammesso in alcun modo il contatto – spiega Longo – Quando nacque la cooperativa non autorizzarono neanche lo svolgimento dell’assemblea con partecipazione dei soci mista (e per votare abbiamo dovuto usare le deleghe). L’istituzione carceraria sta apprezzando e riconoscendo sempre di più i progetti di educazione e lavoro, ma nella maggior parte dei casi resta prioritario il tema della sicurezza». «Ma questo non toglie che sia necessario continuare» conclude Longo, perché soprattutto «noi donne abbiamo la capacità straordinaria di tenere assieme le diversità e di ricomporle in forme nuove e inedite, anche prendendoci cura dell’ambiente in cui viviamo».
A condividere questa spinta trasformativa anche Bali Lawal, modella fino al 2013 per i maggiori stilisti internazionali, arrivata adolescente in Italia dalla Nigeria dove è tornata per realizzare un progetto imprenditoriale sempre nel settore della moda «perché, da un lato, a noi modelle ad un certo punto dicono che siamo vecchie per proseguire il nostro mestiere, dall’altro ci sono persone che non hanno la possibilità di inserirsi in questo settore”. Il progetto Coded World, “Combining our diverse ethnicities differently”, significa possibilità di incontro e di lavoro non solo in Africa per giovani da tutto il mondo. È una risposta anche a chi dice ‘aiutiamoli a casa loro’? In un certo senso hanno ragione, sostiene Lawal: «perché fino ad oggi si è pensato solo a supportare la popolazione africana con cibo, scuola, religione mentre ciò di cui ha più bisogno l’Africa è un cambiamento radicale, affinché noi stessi diventiamo i protagonisti del nostro futuro. Anche i nostri governi devono fare qualcosa di importante con i nostri soldi e le nostre risorse naturali, se ottimizzate, ce lo potrebbero permettere». Ma questo non significa far venir meno il ruolo della cooperazione internazionale, prosegue Lawal: «epurata da interessi poco chiari, la cooperazione può avere un ruolo molto importante, ma non deve essere l’unica componente».
Di certo è necessario aumentare la comunicazione fra soggetti istituzionali e società civile, di recente Lawal ha avviato un altro progetto in Kenya “Teaching the way” rivolto a bimbe e bimbi sopravvissuti all’Aids e anche il Fondo Globale, il maggiore meccanismo finanziario internazionale che sostiene la lotta alla tre pandemie Aids, Tbc e malaria, ha avviato sempre in Africa la campagna Her, rivolta a donne e bambine affette da Hiv. «Alcune persone non hanno avuto il coraggio di venire con me, mi hanno fatto tantissime domande sull’Aids e su questi bambini – conclude Lawal – Purtroppo non capiscono che l’Aids è una malattia con la quale oggi si può vivere se si ha accesso ai farmaci. Non conosco bene il Fondo Globale, per fortuna o ‘purtroppo’ ci sono molti progetti simili in Africa. Ma sono tutti fondamentali, perché oggi in Africa curarsi è diventato difficile, se non hai soldi la salute resta un privilegio».

Pubblicato su La27Ora del Corriere della Sera



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