Barbara Bonomi Romagnoli | Convention ad excludendum – scritto in collaborazione con Rosa Saugella
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Convention ad excludendum – scritto in collaborazione con Rosa Saugella

Il sommovimento femminista, tornato ad essere visibile negli ultimi mesi, ha scelto in diversi momenti pubblici di ritrovarsi solo tra donne, femministe e lesbiche. Una modalità che ha sollecitato accese discussioni e che, vista da fuori, è sembrata una sorta di déjà vu, in molti hanno immediatamente rivolto lo sguardo agli anni Settanta. In realtà, tra le più convinte sostenitrici della pratica separatista, soprattutto per il corteo del 24 novembre scorso, sono state le giovani. Ragazze che in molti casi frequentano, vivono o comunque fanno politica anche in luoghi misti ma che, in questo caso, pensano che stare tra donne sia funzionale e necessario, per riappropriarsi di tempi e spazi troppo spesso declinati al maschile.

All’indomani di Flat, le due giornate romane dello scorso weekend a cui hanno partecipato oltre trecento donne da tutta Italia, Claudia, del collettivo La mela di Eva di Roma, così spiega la loro scelta: “Per noi il separatismo è uno strumento non un fine. Non pensiamo ad una società separata, ma riteniamo che l’oppressione che riguarda le donne è specifica come quella dei migranti, dei lavoratori o altri. Per questo è necessario che le donne debbano prima ritrovarsi e autorganizzarsi. Solo dopo averlo fatto e aver preso coscienza di chi sono possono aprire il conflitto nei luoghi misti”. Un ragionamento che fin dall’inizio ha trovato perplesse altre donne, soprattutto quelle che lavorano nei centri antiviolenza. Antonietta del centro Ondarosa di Nuoro sostiene “che la violenza è un problema sociale, che riguarda tutti e che le decisioni si prendono in luoghi misti. Come è il caso di alcuni enti locali qui in Sardegna, in maggioranza composti da uomini, che non solo hanno aderito alla manifestazione ma hanno sottoscritto come il comune di Nuoro il protocollo con le pari opportunità”. Questo non ha impedito tuttavia alle donne dei centri di essere numerose e attivamente presenti nella costruzione di questo movimento.

La diversa età, provenienza geografica, professione ha certamente influito sulla riflessione sulle modalità separatiste, che non può essere ridotta a semplici schema lesbiche/etero, giovani/vecchie, militanti/accademiche. Il separatismo è diventato una pratica trasversale che non è stato scelta solo per escludere gli uomini, ai quali si chiedeva eventualmente un’autonoma presa di posizione rispetto al tema della violenza, ma anche quelle donne che veicolano politiche patriarcali e neoliberiste, come spiega Enza, palermitana di Femminismo a Sud: “Inizialmente ho vissuto la scelta separatista della manifestazione come una imposizione autoritaria, che non coinvolgesse tutti i soggetti femministi che erano interessati a partecipare. Non l’ho capita perché le mie letture sul femminismo afroamericano e postcoloniale mi portano a ritenere la pratica separatista come necessaria per evidenziare differenze quando queste possono essere facilmente e opportunamente cancellate. In corso d’opera però l’equivoco è stato effettivamente sciolto: le organizzatrici hanno definito alcuni punti di rottura che ridisegnavano i confini di quel separatismo. Il corteo era antifascista, antisessista, antirazzista. Quindi le donne che avallavano o promuovevano direttamente cultura fascista o pacchetti sicurezza non avevano alcuna ragione per partecipare alla  manifestazione. L’ambiguità del ‘siamo tutte sorelle e ci vogliamo tutte bene’ è stata sostituita con una ferma opposizione alle donne ‘complici’, ‘conniventi’. Così dal corteo è scaturito un terremoto che ha visto femministe divenute quiete e accomodanti accorrere a supporto delle ministre offese ed altre invece mostrare una radicalità forse sopita e comunque insospettabile che le ha restituite alla scena politica intere, vive. Ho colto la scelta come un segnale di rottura positivo rispetto al passato senza aderirvi in maniera dogmatica. Continuo a riservarmi la possibilità di vivere in luoghi separati in alcune occasioni e in luoghi misti in altri momenti”.
Le modalità separatiste investono maggiormente le lesbiche, che lo scorso weekend hanno scelto la provocazione di Monique Wittig: “Le lesbiche non sono donne. Non è più donna chi non è in relazione di dipendenza da un uomo”. Una forte presa di posizione di chi, come lesbica e femminista, più che cadere in altri ruoli stereotipati cerca di segnare la distanza dall’altro sesso, non solo attraverso l’orientamento sessuale ma anche mettendo in crisi la famiglia e il familismo, dove si ritrovano assieme violenza del patriarcato e quella dell’eterosistema. Critica che, come ha detto Elena Bigini di Azione Gay e Lesbica di Firenze, non vuole “riproporre un nuovo dualismo tra coppia e comunità, tra vita basata sulla coppia e invece vita basata sulla comunità” ma un’orizzonte aperto “senza lasciarci intimorire dalle contraddizioni che portiamo avanti nelle nostre esistenze”.
Il nodo, infatti, sembra essere lo stesso di 30 anni fa, non tanto il rapporto uomo-donna, quanto la possibilità di vivere una sessualità libera e consapevole. Fatto che si continua a nominare ma su cui c’è ancora molto da dire.

pubblicato su Left, www.avvenimentionline.it



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