Barbara Bonomi Romagnoli | Destino da bandita, rossovermiglio il colore – intervista a Benedetta Cibrario
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Destino da bandita, rossovermiglio il colore – intervista a Benedetta Cibrario

Una storia lunga un secolo, che narra qualcosa che, per certi versi, non esiste più ma che al tempo stesso ci parla della contemporaneità e di tutte le contraddizioni non risolte, nelle vicende personali come in quelle pubbliche. Accadeva a Torino nel 1928 che una donna subisse un matrimonio combinato e accade anche oggi. E così come allora si cercano vie di fuga per ribellarsi ad un destino già segnato. È attorno alla vicenda di una giovane nobildonna torinese, sposata appunto per volere del padre, che l’esordiente Benedetta Cibrario ha costruito il suo “Rossovermiglio” (Feltrinelli, 216 pagine, 15 euro).

È un testo che scorre senza eccessivo pathos, che forse trova nella compostezza dello stile la giusta misura per restituire le regole e il rigore dei tempi aristocratici. La narrazione segue il filo della memoria della protagonista oramai anziana, ripercorre la sua decisione di chiudere un capitolo e aprirne un altro, completamente diverso. Per dedicarsi alla cura della terra, mettersi a fare il vino e cercare di non pensare ad una passione amorosa che l’ha presa per poco ma totalmente, come spesso accade. Per quest’uomo, quasi un perfetto sconosciuto, lascia il marito e si rifugia a La Bandita, podere in Toscana, dove vivrà anche gli anni della guerra e, a modo suo, della Resistenza.

Rossovermiglio è il tuo primo romanzo. Da dove è nata l’idea, l’ispirazione che ti ha portato alla scrittura?

Ho sempre saputo che avrei scritto, fin da ragazzina. Ma è stato un addestramento lungo. Da autodidatta. Leggevo tantissimo, scrivevo molto, e cestinavo. Severamente. Non è stato facile a volte, perché la scrittura ha bisogno di continuità nel tempo e di disciplina. E io, che ho quattro figli e che ho viaggiato molto per seguire mio marito nei suoi spostamenti di lavoro, faticavo non poco per ritagliare ogni giorno le ore da dedicare alla scrittura. Non ho deciso di scrivere un romanzo, non in senso stretto. Ricordo perfettamente come è cominciata l’avventura che mi ha portato a scrivere Rossovermiglio. Vidi una mostra di Sargent, c’era un ritratto di una giovane donna bellissima, in abito da ballo, ma con un’espressione di tale profonda malinconia nello sguardo che era impossibile non chiedersi chi fosse quella donna, il perché di tutta quella tristezza negli occhi. Tornai a casa e cominciai a pensare a lei. Ne immaginavo la vita, i pensieri, e quando ebbi passato abbastanza tempo – nella mia immaginazione – con lei, mi resi conto che ero pronta a scrivere. La sua storia. O almeno, quella che io avevo deciso dovesse essere la sua storia. Questa è la meravigliosa libertà che ti consente la scrittura.

La geografia del romanzo sembra essere molto legata alla tua biografia, c’è anche altro della tua storia personale che si intreccia nelle scrittura?

Sono cresciuta a Torino e ho vissuto a lungo in Toscana. Dunque sì, i due luoghi del romanzo sono parte della mia vita. E tutte le inquietudini, le piccole vigliaccherie, le emozioni trattenute dei miei personaggi sono caratteristiche che mi appartengono.

I luoghi in cui si svolge il racconto sembrano giocare un ruolo molto importante, quasi fossero altre anime della trama. Da dove nasce questa attenzione?

La mia scrittura è visiva. Nel senso che io immagino nei dettagli ogni pagina del romanzo. E anzi, mi verrebbe da dire, usando un termine cinematografico, ogni scena. I luoghi che fanno da sfondo alle mie storie hanno un ruolo importante, influenzano il carattere dei personaggi, ne guidano le azioni. Questo credo, nasce dal mio amore per il cinema. Nel film è un’operazione ovviamente molto più evidente, ma si può fare anche in un libro.

La protagonista vive a lungo, abbraccia un secolo di trasformazioni, che riguardano l’Italia, prima e dopo la guerra, ma che segnano soprattutto la sua vicenda personale. Quanto conta il fatto che sia una donna?

È determinante. Le donne sono duttili, per definizione. Si adattano alle situazioni, hanno alle spalle lunghi secoli di sottomissione e di adattabilità alle circostanze. Sono capaci di piccoli gesti di coraggio quotidiano, sanno entrare in sintonia con gli altri, sono abituate ad accogliere dentro di sé ciò che è nuovo e vitale. Anche biologicamente, nella maternità.

A proposito di questo, la maternità della protagonista è nascosta, solo accennata nel finale. Hai scelto di non dargli grande rilievo nell’economia della scrittura o per non dare peso a quello che allora come oggi è visto, erroneamente, come un destino biologico della donna?

La donna non si esaurisce nella maternità. Generare un figlio è un fatto biologico, ma crescerlo e guidarlo a diventare un adulto coinvolge tutta una sfera emozionale che alcune donne possono non desiderare. La mia protagonista rinuncia a questa grande gioia e ne paga le conseguenze con un dolore che la accompagnerà tutta la vita.

Pensi che la scrittura ti abbia conquistata, continuerai con questo “mestiere”?

Assolutamente sì. Scrivere è un po’ come partire per un lungo viaggio avventuroso, che ti porta a conoscere luoghi e personaggi, nascosti nelle pieghe dell’immaginazione ma non per questo meno reali e vitali delle persone che si incontrano nella vita. E, alla fine del viaggio, il vero premio è la condivisione con gli altri delle emozioni. Ed è un premio a sorpresa, perché ciascuno vedrà nel tuo libro quello che la sua sensibilità lo porta a trovare. Magari addirittura qualcosa che tu, scrittore, non sapevi nemmeno di aver scritto. È nello scarto inevitabile tra scrittore e lettore che sta la magia di questo mestiere.

pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it



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