Barbara Bonomi Romagnoli | Di cosa parliamo quando parliamo di uomini
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Di cosa parliamo quando parliamo di uomini

“Con tutta sincerità ammetto che la “questione maschile” – eccetto tutto ciò che concerne il tema della violenza – non mi appassiona. Mi pare che il dibattito si giochi su un livello di astrazione e genericità che non giova al ragionamento e alla conoscenza, rendendo vana ogni possibilità di cogliere qualche – seppur provvisoria e approssimativa – verità. Ma lo stesso tema, se declinato su terreni concreti e con focus specifici, diventa ricco di spunti”: così Monica Pasquino, portavoce di Scosse, associazione prettamente femminile nel suo gruppo ristretto ma aperta a uomini e donne, che aggiunge: “Aspettiamo con curiosità l’arrivo di un uomo nel cerchio più attivo dell’associazione, potrebbe essere un elemento di crescita per tutte noi da non sottovalutare”.

Anche Sara Pollice, della cooperativa sociale Befree, non ha dubbi sul fatto che il nodo sia quello della violenza e capovolgendo l’assunto afferma che “la violenza esiste perché c’è una questione maschile che è urgente affrontare. Ancora una volta la questione della violenza è la punta dell’iceberg di una questione culturale e sociale che da un lato vittimizza le donne, dall’altra le colpevolizza per il loro volere essere soggetti. L’uomo si vuole riprendere a suon di vecchi e beceri concetti quella supremazia che il femminismo e l’emancipazione diffusa delle donne gli avevano tolto. Spesso i risultati sono ridicoli, ma resta il fatto che il clima stia tornando ad essere sfavorevole all’autonomia e all’autodeterminazione delle donne”.
Celeste Costantino, deputata Sel, ritiene invece che la questione vada “decisamente oltre il tema della violenza di genere. Siamo di fronte ad una dimensione culturale fondativa dei rapporti sociali che, nonostante l’attività e l’impegno instancabile delle donne nel corso del tempo e in ogni settore della vita, persiste ancora oggi. Per affrontarla bisogna partire, prima ancora che dai punti di vista, da alcuni dati di realtà: le donne in tutte le statistiche, in tutti gli studi sulla disoccupazione, rappresentano la fetta più consistente del Paese. Eppure continuano a guadagnare meno degli uomini a parità di ruolo professionale; inoltre a loro è affidato il welfare nazionale e la cura dei piccoli e degli anziani, sebbene rischino di perdere il lavoro proprio nel momento in cui diventano madri. I cambiamenti sono avvenuti, le trasformazioni sono in atto soprattutto nel campo della politica. Ma siamo davvero molto lontane dalla riflessione profonda portata avanti dal movimento delle donne. Non è più solo (se mai lo è stata) una questione legata alla rappresentanza: attualmente alla Camera dei deputati vi è il più alto numero di donne mai elette in Parlamento; la percentuale più alta di ministre con deleghe importanti come Difesa, Affari costituzionali, Sanità, Pubblica amministrazione, Istruzione, Economia e sviluppo; la terza carica dello Stato è donna. Nonostante questo avverto nel dibattito culturale la sublimazione di alcuni elementi di arretratezza. Persiste ancora, infatt,i dentro i partiti la “cultura del testosterone” che non è solo il potere in mano agli uomini o la tendenza a promuovere la visibilità di un leader maschio come è avvenuto con Berlusconi ed oggi con Renzi, ma è il desiderio di introiettare quel modello”.
Motivo per cui Silvia Vaccaro, giornalista di Noi Donne, indica due vie per accostarsi al tema e sostiene che “dipende a cosa ci riferiamo con questo termine. Se intendiamo ‘questione maschile’ come protagonismo degli uomini al dibattito e alla conseguente decostruzione delle relazioni di potere attualmente vigenti in Italia – e di cui la violenza sulle donne, in tutte le sue molteplici forme, è la conseguenza più nefasta – credo che la risposta non possa essere che un deciso no. Ci sono alcuni uomini che riflettono e prendono parola pubblica ma restano una minoranza sparuta, anche all’interno di partiti e movimenti di sinistra. La ‘questione maschile’ – sostiene Vaccaro – è invece ormai, e questo lo ritengo un bene, un tema ricorrente nei dibattiti femministi, una locuzione con la quale si descrive la necessità di interrogare gli uomini (soprattutto quelli che possono prendere parola pubblica) e di spingerli a interrogarsi sulle relazioni tra generi, con una certa urgenza direi, e di partecipare alle discussioni, di dissociarsi pubblicamente da alcuni episodi di maschilismo che in realtà sono all’ordine del giorno. Sogno un prossimo 25 novembre con tantissimi uomini e donne per le strade, insieme”.
Anche Chiara Martucci, ricercatrice indipendente nell’area degli studi culturali e di genere, pone dei distinguo: “se parliamo di questione maschile come ‘crisi’ e messa in discussione di un ordine dato per naturale mi sembra di poter dire che sì, esiste. Ma non è paragonabile alla questione femminile intesa come mancanza di diritti e subordinazione, perché resta il monopolio del ‘modello maschile’ rispetto al potere. Mancano alternative di modelli di mascolinità/maschile e una genuina sperimentazione di sé. Ho la sensazione che gli uomini restino attoniti, ‘drogati’, scontenti e alle prese con contraddittorie aspettative sociali che arrivano anche da parte delle donne che li circondano perché per prime troppo spesso ricalcano vecchi stereotipi”.
Non solo: come afferma Sveva Magaraggia, sociologa femminista, da una recente ricerca sui gruppi misti emerge che mancano gli strumenti alle giovani donne per mettere totalmente in discussione i vecchi modelli, sia nella vita di tutti i giorni che nella militanza politica. Questo perché “il genere è radicato in noi da prima della nascita, è in noi in profondità e poi via via si intreccia con l’amore, la seduzione, l’identità. È il prodotto di aspettative dei genitori che si organizzano già prima della nascita anche emotivamente nell’attesa di un maschio o una femmina. Nasciamo in mondi già connotati e metterli in discussione significa mettere totalmente in discussione la propria identità. Nelle pratiche politiche miste molto radicate si fatica a farlo.
Tuttavia anche i maschi giovani soffrono queste modalità – prosegue Magaraggia – ma o non riescono a rompere con esse o non vedono nelle pratiche femministe una possibile alternativa. La questione maschile va rintracciata anche qui ed è con loro, i giovanissimi, che si dovrebbe parlare. Soprattutto perché le giovani femministe – che io definisco la quarta ondata – partono da un presupposto diverso dal nostro: il genere si fa in due e si deve lavorare insieme. La domanda è: come tradurre questo presupposto in pratica femminista?”.
A risponderle indirettamente è Matilde Ciolli, la più giovane del gruppo, ventiduenne studentessa universitaria, che dichiara subito che la definizione ‘questione maschile’ la mette in allerta: “Quel maschile mi appare un termine identitario, che sottende – implicitamente – un’universalità di caratteristiche attribuite agli uomini e che rischia di essenzializzare, bollare e pregiudicare l’intera categoria maschile, laddove si tratta di una pluralità e non di una totalità. Diciamo, quindi, innanzitutto che il termine non mi piace. Se con ‘questione maschile’ si intende un’attitudine maschile a generare ingiustizie, violenze, disuguaglianza nel rapporto tra i generi, credo sia opportuno spostare il focus su una cultura, su una gestione economica e politica di tipo patriarcale. Si tratta di patriarcato, non di mascolinità. Essere uomini non necessariamente comporta la perpetrazione di modelli sessisti. Sebbene sia evidente che alcune scelte, attitudini, linguaggi, mentalità maschili(ste) siano all’origine di femminicidi, di un gap salariale fra i generi, di una bassa copertura di impieghi apicali da parte delle donne, della prevalenza maschile nel mondo politico, di leggi inique nei confronti delle donne, di termini e immagini offensivi attraverso cui le donne sono rappresentate e così via – e sebbene tutto ciò richieda imperativamente un serio intervento – credo che sia bene non sottintendere alla ‘questione maschile’ l’equazione tra questi fenomeni e la mascolinità”.

Una carrellata di opinioni che mette in luce diversi possibili letture del disagio, se così vogliamo chiamarlo, vissuto da uomini alle prese non solo con la loro identità maschile e le aspettative sociali ma, quasi un paradosso, anche con la poca accoglienza nei luoghi femministi. Come mai? Perché si chiede loro di assumersi la presa di parola e spesso quando lo fanno soggiace la diffidenza, se non la resistenza da parte di non poche femministe? Perché non ci si ascolta fino in fondo reciprocamente?
Per Sara Pollice è questione di tempo e, ancora, di separatismo: “La coscienza maschile è di là da venire su molte questioni, non perché non ci siano già oggi persone molto preparate che stanno lavorando per se stessi e per tutti/e, ma perché la storia di due millenni dell’intera umanità si basa sui privilegi messi in pratica dagli uomini, che hanno definito priorità, modalità di ‘sviluppo’, rapporti con le donne e molto altro, ed è molto difficile mettere in discussione tutto ciò dando vita ad una trasformazione reale. Per questo ancora c’è bisogno di molto separatismo e anche l’incontro con le donne, il confronto politico, può essere efficace, secondo me, per posizionamenti considerati ‘acquisiti’ da parte maschile, elaborati al punto da poterli esternare”.
Così come è necessario esternare il conflitto sostiene Chiara Martucci: “Spesso c’è un atteggiamento nei confronti degli uomini consapevoli poco franco, una sorta di reverenza bonaria nei loro confronti, lo chiamerei un incensamento gratuito: non è che se un uomo cambia il pannolino diventa subito un santo. Dall’altro lato, però, è vero che c’è spesso un approccio normativo-assertivo da parte di alcuni femminismi, come la Libreria delle donne di Milano, per cui si ha l’aspettativa di un maschile, ‘figlio’, che dalla madre tutto apprende. Penso sia una modalità relazionale che entra in totale contraddizione con il principio dell’autodeterminazione”.
“È un atteggiamento di giudizio verso il maschile che reputo intollerabile – aggiunge Monica Pasquino – mentre trovo molto interessanti, anche nelle loro criticità e fragilità (quale esperienza non le ha!), i percorsi che alcuni uomini hanno costruito per indagare il maschile e quando possibile provo a instaurare uno scambio e un confronto, alla pari e nella differenza, senza pregiudizi, anzi con molto affetto e stima”.
È quasi come se si fosse schiacciate fra maschi che non intendono minimamente mettere in discussione le loro modalità maschiliste, soprattutto in pubblico perché poi magari a casa sono un tantino meglio, e quelli che timidamente prendono parola e ugualmente qualcosa scricchiola, quasi che sotto sotto le femministe continuassero a pensare che in fondo in fondo anche questi uomini non siano affidabili. “L’idea che mi sono fatta negli ultimi anni – prosegue Sveva Magaraggia – è che questi compagni cerchino continua approvazione dalle femministe storiche o da noi, esprimendo una profonda insicurezza che personalmente avevo sottovalutato. Mancando di autonomia il terreno diventa fragile e scivoloso e le donne più forti si pongono in una postura escludente: ‘vieni qui che ti devo dire se fai bene o male’. Mi sento di dire che siamo ancora nella fase dell’accreditamento, ossia di una modalità relazionale patriarcale”.
Tutte d’accordo, dunque, sul fatto che le donne non si devono porre in relazione come figure accudenti che indicano ai compagni la strada per la loro liberazione, per usare le parole di Silvia Vaccaro che aggiunge: “È giusto che problematizzino il loro ‘essere uomini’ e trovino da soli il modo di decostruire ciò che altri uomini, come soggetti di potere e produttori di questa cultura in cui viviamo più delle donne, hanno cristallizzato nei secoli. Però il confronto con le femministe è fondamentale, e su alcuni temi, penso proprio alla violenza, bisognerebbe fare politica e organizzare iniziative insieme, abbandonando resistenze e preconcetti sul maschile. Non vedo nessuna possibilità di rendere la società più femminista senza il coinvolgimento e l’apporto degli uomini”.
In piena sintonia con lei anche Matilde Ciolli: “Pur non avendone mai fatto parte – spiega – ho l’impressione che gruppi di sole donne o soli uomini rischino di essere da un lato autoreferenziali, dall’altro di non riuscire a far passare all’esterno delle proprie cerchie il messaggio della propria lotta. Sebbene rispetto e ammiro molto i gruppi di uomini che lavorano su se stessi e prendono posizione contro il modello machista e patriarcale (e trovo molto sterili e spesso ingiustificati i pregiudizi, la sfiducia aprioristica che alcune femministe mostrano nei loro confronti), resto comunque dell’idea che il dialogo costante con le donne e con il mondo lgbtq sia molto importante per un esito costruttivo di questo tipo di lavoro”.
No al separatismo, ci dicono le amiche più giovani, ma continuo lavoro di tessitura fra sessi, generi e generazioni se, come nota Celeste Costantino, l’accusa che viene mossa spesso e volentieri “è che noi donne, soprattutto noi femministe, saremmo poco inclusive. Alcuni atteggiamenti risultano respingenti, tra l’altro non solo per gli uomini ma anche per le donne, tant’è vero che nel corso del tempo le giovani generazioni hanno bandito la parola e la pratica femminista”. Forse è da qui che si deve ricominciare, conclude Celeste, “per riuscire a parlare di un nuovo concetto di cittadinanza, frutto delle conquiste del passato e rinnovato rispetto alle trasformazioni del presente”.
A parole è tutto più semplice, poi nella pratica non tutte sono disposte a stare in contesti misti dove, come ricorda Monica Pasquino che invece li frequenta, “si riscontrano in continuazione i problemi di sempre della forma politica tradizionale: il leaderismo maschile e la prevalenza di pratiche quotidiane escludenti per le donne. Non mi pare che i giovani attivisti politici, così come i nuovi esponenti della sinistra istituzionale, siano migliori delle generazioni passate. A volte lo sembrano soltanto, hanno imparato a usare parte del lessico delle donne, ma non molto di più”.
Motivo in più per cui Sara Pollice, ad esempio, preferisce uno spazio separato: “Ho bisogno di stare tra donne per esprimere bisogni ed affrontare istanze collettive con le altre. Ho fatto attivismo, non militanza, anche in contesti misti. Nella mia esperienza ho visto che si verificano atteggiamenti ‘inconsciamente’ sessisti, di messa in discussione sottintesa, di delegittimazione quando gli spazi sono esclusivamente a gestione femminile. D’altronde le femministe negli anni settanta vivevano per un periodo una doppia militanza, proprio perché negli ambiti misti la parità non era lo standard”.
Estremamente interessante la percezione di Celeste Costantino, che – da politica – sottolinea come “il separatismo che sembra superato continui invece a persistere senza che venga nominato o strutturato. Farsi carico della differenza sta sempre in capo a noi, nella sostanza, mentre nella gestione del potere persistono le metodologie di sempre: alle riunioni ufficiali ci siamo anche noi donne ma nei luoghi in cui si decide davvero sono sempre un piccolo gruppetto di uomini a farlo. Certo esistono esperienze come ‘Maschile plurale’ o ‘Uomini in cammino’, che hanno proposto un ribaltamento dello sguardo sulle questioni di genere e in particolare sulla violenza ma questi movimenti, che dovevano servire a contaminare il pensiero maschile, si sono trasformati nelle figure a cui delegare la ‘questione maschile’. Insomma da parte della politica si fa di tutto per trovare la scorciatoia, per non farsi carico della complessità e per deresponsabilizzarsi”.
Si torna dunque al punto di partenza? È necessario tornare a stare fra sole donne e aspettare di avere un rapporto alla pari con gli uomini consapevoli?
Dipende, come direbbe Silvia Vaccaro, non solo dal contesto e dalle storie personali, ma anche dalla diversa elaborazione di teorie femministe che solo dieci anni fa portarono collettivi di donne a cercare nuovamente spazi solo per sè. É il caso, fra le nostre intervistate, di Matilde Ciolli: “nonostante negli ultimi anni abbia fortemente assimilato il pensiero femminista e i suoi valori, non faccio parte di nessun collettivo femminista, né di collettivi o gruppi politici in generale. Mi sono avvicinata al femminismo, al liceo e ancor più all’università, grazie a delle bravissime professoresse, non perché abbia avuto contatti in famiglia. La mia tesi di triennale mi ha portata ad uno studio molto approfondito di Judith Butler e da lei deriva in gran parte il mio scetticismo, se non addirittura il mio disaccordo, con un attivismo politico separatista. Sicuramente ci sono situazioni, sensazioni, paure, riflessioni che fra donne possono essere capite meglio per un’analogia di esperienze che il ‘diventar donne’ comporta. Ciononostante, credo che un gruppo politico, che quindi per sua natura si propone di agire per il bene di una collettività, data una comunanza di intenti, debba rappresentare tale collettività – per quanto possibile- nella sua totalità e riportare al suo interno il dialogo fra posizioni molteplici che in essa possono presentarsi”.
Oltre i sessi e i generi, dunque, rileggendo Butler ma alla ricerca costante di un dialogo.
E per farlo, in che modo ci si relaziona all’altro da noi, nel privato e nei rapporti interpersonali?
“Dai primi tempi di scoperta del femminismo, intorno al 2005, e fino a qualche anno fa, mi circondavo quasi esclusivamente di donne anche nella vita privata. Perché volevo sapere, scoprire, confrontarmi, e costruire relazioni con ‘le sorelle’. Era difficile trovare un uomo interessante o che non mi facesse arrabbiare – racconta Silvia Vaccaro – Adesso continuo a trovare le donne tendenzialmente molto più profonde e misteriose, continuano a piacermi di più, però concedo agli uomini la possibilità di stupirmi e mi lascio travolgere più facilmente dalla loro capacità – di alcuni, non di tutti e che anche alcune donne possiedono – di essere leggeri, capacità necessaria per guardare le questioni della vita, anche le più serie, volandoci e ridendoci sopra, invece che prendendole di petto”.
Chiara Martucci, un po’ più grande e un po’ più disincantata, prova invece un po’ di frustrazione anche nelle relazioni con altre donne dove ha fatto esperienza di dinamiche molto distruttive giocate ancora sulla invidia e la competitività: “la mia riflessione più generale da 42enne è che pur aver messo in gioco la vita, le energie e le passioni per arrivare all’adultità e alle responsabilità, nella cassetta degli attrezzi ho armi spuntate”. E non è una bella sensazione.
C’è invece chi si sente addirittura un ‘anti-telegiornale’ per i propri amici uomini, così l’esperienza di Sara Pollice: “Nel privato ho amici uomini molto consapevoli. Un po’ perché porto la politica nel privato e chi non sopportava il mio essere femminista si è allontanato da solo, un po’ perché al contrario, coloro che conoscevo prima del femminismo si sentono coinvolti nelle mie scelte e mi appoggiano, vogliono sapere, si informano e si beccano le mie tirate. Sento che per chi non fa una scelta politica pubblica, perché lavora tantissimo a causa, per esempio, di figli piccoli o genitori anziani, essere a contatto con un’amica che ti parla di quello che succede attraverso una lente trasformativa e non rassegnata è fondamentale. Per alcuni sono una specie di ‘anti-telegiornale’. Altra cosa sono gli scambi occasionali con gli uomini per strada. Spesso il mio modo di pormi, gentile ma determinato, comporta un tenersi alla larga educato ma ipocrita, in alcuni casi invece il rapporto alla pari è subito istaurato e questo si sente anche se si scambiano poche parole”.
Nel sentire comune di queste donne c’è sicuramente un dato: l’orientamento sessuale nel rapporto con il maschile non conta, anche se può capitare che come ammette Silvia Vaccaro che ci si posizioni diversamente a seconda di chi si ha avanti: “Con gli amici gay parliamo spesso dei diritti civili di cui non godono ancora, arrabbiandoci insieme, e mi pongo come un’alleata. Con quelli eterosessuali invece, cerco il conflitto, provando a decostruire le loro certezze radicate su ciò che è ‘naturale’ quando parliamo di ruoli e di comportamenti di uomini”.
Ma non sempre è facile coinvolgere gli uomini in percorsi che riguardano il loro sentire e il loro modo di costruire il reale. Racconta Monica Pasquino che nonostante con Scosse non abbiamo mai proposto iniziative o attività rivolte solo alle donne succede spesso, per esempio nei progetti di formazione per insegnanti per il contrasto degli stereotipi di genere nell’infanzia, che al 100% si presentino solo donne insegnanti.
Come mai gli uomini che hanno fatto percorsi di liberazione non riescono ad incidere di più?
“Purtroppo ora sono un élite di uomini consapevoli, il movimento è iniziato e questo è un bene – considera Sara Pollice – Ma non vedo le attuali esperienze come esaurite in se stesse, le vedo come il frutto di un’elaborazione agli albori che ha tutti i limiti di un discorso appena iniziato. Per questo il loro femminismo è anche metodologico, cioè riprendono il partire da sé, l’ascolto reciproco, lo spazio separato per contattare se stessi sotto la coltre di condizionamenti ed influenze. Ed è il primo passo, poi è importante che si trovino gli strumenti perché riunirsi e confrontarsi diventino pratiche di massa”.
Mentre per Silvia Vaccaro forse qualche sforzo in più andrebbe fatto: “Dico, spero senza che me ne vogliano, che il loro campo di azione in questi anni mi è sembrato abbastanza limitato: non mi sembra si siano innescate rivoluzioni, né tra gli uomini, né nei rapporti con le femministe a seguito di queste esperienze. Però non è un male che ci siano, così come è un bene che alcuni uomini, anche singolarmente, prendano parola pubblica, penso a Lorenzo Gasparrini, che con i suoi blog contribuisce non poco al dibattito femminista in rete offrendo un punto di vista aperto e molto interessante, e capace di dare spunti di riflessione e approfondimento”.
Sperando che si moltiplichino le voci e gli stimoli non solo per arginare le spinte reazionarie degli ultimi decenni, che passano per lo smantellamento dei diritti di autodeterminazione delle donne fino all’invenzione di improbabili teorie gender, ma anche per far diventare una ricchezza comune una delle prerogative del nostro tempo: la precarietà emotiva, materiale, sentimentale che influenza anche le relazioni fra i sessi.
Sostiene Celeste Costantino che “la precarietà come condizione esistenziale della mia generazione ha determinato senz’altro un meccanismo di avvicinamento e di condivisione”, ecco vogliamo essere fiduciose che sia così, che diventi un punto di forza per tutt@, per ripensare il futuro guardando a quello che è stato già fatto fin qui.

Pubblicato su Leggendaria 113/2015



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