Barbara Bonomi Romagnoli | I banditi di Acqui – intervista agli Yo Yo Mundi
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I banditi di Acqui – intervista agli Yo Yo Mundi

 

Dopo aver deragliato dai soliti binari, realizzando fra i vari progetti anche spettacoli teatrali e album strumentali, gli Yo Yo Mundi – amanti dei margini e rigorosamente fuori norma – son tornati con un disco soprattutto di canzoni e di colori, in particolare il rosso. Quel rosso che sembra essere un po’ démodé, o semplicemente si è stinto al punto da non essere più riconoscibile. Eppure tanti piccoli segnali dicono il contrario e ogni canzone di «Album Rosso» [manifestocd] suggerisce un modo per riportarlo in auge, senza retorica ma con la passione che caratterizza i cinque musicisti di Acqui Terme, da vent’anni in giro per il mondo.

Un disco di «canzoni di amore di lotta e di speranza», fra queste c’è «Il giorno in cui vennero gli aerei» che parla delle bombe cadute sui giovani studenti libanesi. Brano per il quale Ivano A. Antonazzo ha realizzato un video clip con cui gli Yo Yo sono arrivati finalisti al Premio Amnesty international Italia 2009. Un album pieno di suggestioni, fra parole e musica, aldilà del titolo che non nasce per essere provocatorio, ma pensato un po’ per gioco un po’ per scherzo come ci racconta Paolo Archetti Maestri, voce della band e autore di molti testi.

Cosa ha ispirato questo nome?

È capitato per caso. È successo che mentre ci dedicavamo a lavori come «Sciopero», «54» con Wu Ming o «Fuoriusciti», nel frattempo le canzoni crescevano. C’è in realtà molto più materiale di quello poi andato a finire nell’album. In questi anni aumentavano gli appunti sparsi, o alcune intuizioni registrate sul cellulare o su fogli e scontrini vari. In questi casi, si sa, qualunque mezzo per scrivere è buono. Ad un certo punto abbiamo fatto una cartella sul pc, dove riversare il tutto e ci siam detti come la chiamiamo? Disco nuovo non ci piaceva e allora è venuto fuori album, scherzavamo sull’album bianco dei Beatles e ci piaceva l’idea di album come raccolta di tante cose diverse perchè già pensavamo che ci sarebbero stati pezzi strumentali e recitati accanto alle canzoni. Il colore lo abbiamo ritrovato nei brani, è entrato in essi, senza una volontà precisa. Il naso rosso del clown, il rosso del tramonto nell’età inquietà, o nella solitudine dell’ape è il rosso del miele della memoria fino ad una casa ideale per tutti i rossi, l’anarcobaleno, pensato con Marco Rovelli o alla storia di «E a un certo punto il rosso cambiò colore» che ha scritto per noi Massimo Carlotto, che parla di Messico e lavoro.

In questo album torna la storia di Cefalonia, della divisione Acqui e di Marcello Venturi. Che cosa vi lega così forte mente a queste vicende?

A noi veniva raccontata da bambini e quindi è nelle nostre corde e si deve proprio a Marcello Venturi e al suo libro se quella storia è stata resa pubblica. Negli ultimi tempi tra l’altro il nuovo assessore di Acqui ha anche cambiato un po’ il premio Acqui Storia. È stato creato negli anni sessanta da Marcello Venturi, che combatté con i partigiani contro i nazifascisti, e da alcuni reduci della divisione di fanteria sterminata nelle isole greche. Non solo è un tradimento della ragione di quel premio ma una maniera per dire «ora vi raccontiamo una altra storia». Per noi ci sono due fattori importanti che ci spingono a parlare di questi fatti, il primo portarla fuori dal nostro territorio, farla conoscere fuori di qui e, l’altro aspetto, è il voler contrastare la voglia di riscrivere la storia, quasi che la storia fosse un armadio con le ante girate verso il muro. Non ci stancheremo di raccontare come sono andati davvero i fatti, del resto a volte qui ci chiamano i banditi di Acqui…

Cosa altro si può fare per arginare il brutto che avanza?

La soluzione è nell’ironia dell’ape. E parlando delle api non intendiamo tanto dire che c’è un mondo da recuperare. Non è un disco nostalgico, piuttosto parla di sensibilità tradite, una consapevolezza che non è solo la nostra ma di un mondo che ci appartiene.

Canti anche di una età inquieta, che vuol dire?

Forse è la canzone più dolorosa, l’idea di momenti di passaggio che forse ci dobbiamo aspettare anche più gravi di quello che pensiamo. E le parole che mancano sono quelle che dovremmo mettere tutti insieme.

È un album popolato da diversi personaggi: il palombaro che di stare a galla a tutti i costi proprio non gli va o il clown che dice «non ha senso vivere se non c’è niente da ridere»…

Sì, il palombaro è una delle più vecchie, forse è proprio il filo che unisce i due dischi, questo e La bellezza dei margini [2002, Ndr], anche quello di canzoni. Noi preferiamo spostarci dal centro e andare ai margini o in profondità come dice il palombaro. Perché il grosso problema della nostra società è che ci costringe al centro, sotto al neon, alla luce forte… Sul clown vorrei dire che è solo apparentemente triste. Lui strappa i veri sorrisi come fossero fiori in contrasto al riso sguaiato. La canzone non finisce qua… c’è un seguito. È il classico scherzo del clown che diventa per noi il trampolino per il futuro…

È anche un album pieno di ospiti, fra cui anche Steve Wickam, violinista degli Waterboys e violino in «Sunday bloody sunday» degli U2…

Sì il violino di Steve Wickman è stato davvero una grande emozione. Lo stesso per tutti gli altri amici che sono stati con noi. Anche perché senza di loro sarebbe stato difficile realizzare un album così. Gli Yo Yo non sono solo cinque, ci sono anche Luca Olivieri, le voci di Patrizia Laquidara e Suso, Marco Rovelli e Massimo Carlotto, i fiati di Maurizio Camardi, Alessio Lega, la chitarra di Paolo Bonfanti, le percussioni di Diego Pangolino, Fabrizio Pagella, Laura Bombonato, il clarinetto di Andrea Cavalieri, Giovanna Vivaldi, Eugenio Merico, Andrea Assandri e tanti altri.


Siete vecchi amici anche di Carta…

Sì. Carta e Yo Yo hanno in comune, anche con altri, esperienze faticose come portatori sani di un altro mondo possibile. Credo che la fratellanza, la vicinanza non sia tanto guardasi negli occhi ma guardare nella stessa direzione. Possiamo sperare in una altra società, in una altra Italia.

pubblicato su Carta, www.carta.org



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