Barbara Bonomi Romagnoli | La lettera. Di una donna – Una riflessione a partire dalla “lettera di dimissioni” di Cindy Sheehan
357
post-template-default,single,single-post,postid-357,single-format-standard,ajax_fade,page_not_loaded,,select-theme-ver-1.6.1

La lettera. Di una donna – Una riflessione a partire dalla “lettera di dimissioni” di Cindy Sheehan

Non è un caso che sia una donna, ho pensato dopo aver letto la lettera di Cindy Sheehan. Perché sono pochi gli uomini, a mia memoria, che avrebbero scritto righe così lucide pur nel dolore e nella delusione e avrebbero accettato così pacatamente il limite del corpo, prima che della mente, che dice basta.

Alle sofferenze, alle ingiurie, alla guerra che ha ucciso un figlio e ne ha allontanati altri. Ad una politica afona, incolore, che non vuole farsi carico dei reali bisogni di chi la alimenta e la paga, di chi vota in buona fede pensando che il programma elettorale sarà davvero rispettato e che la guerra, anche dove non lo dice a chiare lettere la Costituzione, sarà bandita dalla storia. A chi non riconosce che la politica si fa tessendo relazioni feconde, attraverso lo scambio con chi mette in discussione l’esistente in una ottica di pace e benessere per tutte e tutti.
La lettera di Cindy Sheehan è certamente rimbalzata in tutti i media del mondo, e probabilmente la sua esperienza ha colpito tante e tanti ma non so fino a che punto le sue parole di addio al movimento siano state davvero comprese in tutta la sua radicalità. Sheehan ha detto senza mezzo termini quello che altre donne nel mondo ripetono da anni, ossia che il gioco della politica istituzionale, ma anche di quella militante, è roba da uomini che preferiscono allearsi, incuranti delle differenze, per non perdere il potere. Luoghi dove una donna fa fatica a trovarsi a suo agio. Come dice Sheehan rispetto all’America, ma vale anche per le nostre “democrazie” europee: “Come poteva una donna avere un pensiero originale e agire al di fuori del nostro sistema bipartitico?”
Già come si fa? Se lo si fa si viene accusate di mania di protagonismo (guai che si dica seriamente a un uomo una cosa così), di essere un po’ pazze, troppo sopra le righe.
Difficilmente si riconosce la totale messa in gioco delle donne che decidono di dire qualcosa, si badi bene, per il bene di tutti o che spendono tempo e energia per una causa comune, anche quando non sono mai state “battagliere” o militanti prima, come mi pare essere il caso di Sheehan.
Ha agito da madre disperata, ho sentito dire, e anche che fosse che male c’è? Non sono madre ma non ci vuole una laurea per comprendere che una madre sa cosa significa vivere, dare la vita, e che per prima non può accettare che la morte venga scelta come soluzione, o, ancora più drammatico, che si accorga che suo figlio è “davvero morto per nulla”. C’è anche mi dice che alcune madri sono orgogliose dei loro eroi. Tutto può essere, ma vorrei ricordare loro quel che disse Brecht: “Felice il paese che non ha bisogno di eroi”.
Credo però che Cindy Sheehan, più che a persone convinte che la guerra sia la panacea di tutti i mali, abbia voluto parlare, anche nel passare il testimone, a quel movimento internazionale per la pace che può essere capace di grandi cose. Può esserlo ma a volte non lo è perché, in America come altrove, “come si fa a lavorare per la pace quando all’interno dello stesso movimento che ne porta il nome ci sono tante divisioni?”
L’interrogativo posto da Sheehan non è né retorico né una presa di posizione “egemonica”, è una questione urgente che va accolta in tutta la sua radicalità. Perché oltre ad essere frammentato è un movimento che non ha ancora, nella sua totalità, assunto la scelta della nonviolenza. Alcune e alcuni pensano ancora che si possa, anche solo sul piano simbolico, utilizzare lo stesso linguaggio che si vuole estirpare (c’è chi direbbe combattere, in puro stile militare). Non so cosa abbia smosso questa lettera nei movimenti pacifisti statunitensi e se, per esempio, qualcuno abbia pensato che Camp Casey potrebbe essere acquistato dal movimento per la pace per divenire un luogo di relazioni e di azioni permanenti contro i governi di tutto il mondo. Forse è impossibile da realizzare, ma almeno si può pensare di continuare a tenere presente la lezione che ci ha insegnato Cindy Sheehan, non disperderla né considerarla qualcosa del passato, da rispolverare per una commemorazione. Sheehan è uscita di scena non per arrendersi ma per ribadire il suo no a questo sistema di vita, per darci un senso del limite che è solo consapevolezza profonda di ciò che davvero conta nella vita. Direi che è abbastanza per pensarci su e scegliere da che parte stare.


pubblicato su NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO



Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi