Barbara Bonomi Romagnoli | La trama è bella, non spezzate il filo – Imola,l’insufficenza dei finanziamenti strangola il centro interculturale di donne “Trama di terre”
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La trama è bella, non spezzate il filo – Imola,l’insufficenza dei finanziamenti strangola il centro interculturale di donne “Trama di terre”

Nel centro di Imola, vicinissimo Piazza Matteotti, camminando senza fretta ci si imbatte in un grande portone di legno, aldilà di esso con pochi passi si è nel cortile interno. Al centro un vecchio pozzo e una atmosfera calma, ma basta uno sguardo veloce per capire che dentro si muove operoso un mondo di persone. La vecchia casa signorile, rimessa a nuovo, ospita i locali del Centro interculturale delle donne “Trama di Terre”: al piano terra ci sono le stanze che ospitano gli “uffici” (tra le varie attività l’associazione offre assistenza legale), la biblioteca, la sala riunioni e quella per i corsi di lingue e poi ancora la “cucina abitata”, due locali dove ci si può incontrare, scambiare esperienze e socializzare gustando ricette multietniche. Al secondo piano ci sono invece tre appartamenti, luoghi di “accoglienza abitativa temporanea” come sono chiamati in politichese, che ospitano donne e bambini che non hanno un posto migliore dove stare e che condividono spazi e culture di provenienza diverse.

“Trama di terre” è tutto questo e molto di più. È uno spazio aperto o come preferiscono definirlo le dirette interessate “un luogo nel-per-della città” che fa politica e costruisce saperi e cultura, attraverso l’incontro tra donne native e migranti (circa 500 ogni anno). Un osservatorio privilegiato per lavorare con consapevolezza sulle tematiche delle migrazioni, perché da sempre “le donne sono il campanello d’allarme su ciò che accade nella società in termini di discriminazioni, violenze e razzismo”.

A spiegarci meglio cos’è Trama, più che l’elenco delle attività sono le storie delle donne che qui hanno trovato un tessuto di relazioni e competenze pronte ad accoglierle. I nomi sono di fantasia ma le loro vite sono tutt’altro che una finzione.
Maria è albanese, ha una sorella a Imola sposata con un italiano. Due anni fa era in viaggio su un traghetto turistico nel mare Adriatico e partorisce in nave una bambina. Sbarcata a Brindisi le danno un permesso di soggiorno per sei mesi per via della nascita. Arriva ad Imola ed entra in contatto con le donne di Trama, vive con loro per più di un anno, racconta a poco a poco delle violenze verbali subite da parte del comandante del traghetto per via del parto. Come se fosse un doppio reato, quello di essere straniera presunta “clandestina che viene a toglierci il lavoro” e anche madre snaturata che partorisce in viaggio. Maria ha partecipato nel corso dei mesi ad attività e corsi e da tre mesi ha un lavoro fisso in un vivaio, ha un contratto e ha trovato una casa e la bimba da sette mesi va al nido. Per un periodo è stata irregolare: “ma cosa vuol dire irregolari – chiede Tiziana, una delle fondatrici di Trama – se le badanti lavorano in nero nelle case? Perché non possiamo accettarle nei corsi di italiano, o aiutarle a trovare un lavoro?”

Katia è una richiedente asilo armena, di recente a Roma le hanno rifiutato la sua domanda d’asilo ma le hanno dato un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Katia era stata segnalata dal comune di Bologna sempre all’associazione imolese, perché era stata allontanata dall’alloggio dove viveva con il compagno dopo che lei aveva denunciato violenze. Arriva in associazione con la bimba piccola in uno stato confusionale, parla poco ed è molto fragile. Oggi madre e figlia stanno molto meglio: la bimba è rinata, ha assorbito l’atmosfera materna, calorosa e giocosa del centro. Katia è uscita dalla depressione e dal disagio mentale, ha un altro figlio di 14 anni in Armenia che ancora non riesce a far venire in Italia, ma ha trovato la forza di guardare avanti, di relazionarsi con altre donne e tirare fuori la sua storia. Adesso sappiamo che è fuggita dall’Armenia passando per la Francia dopo aver subito violenze dalla polizia armena.

Tante altre donne migranti come Katia, spiega Tiziana, dopo aver trovato il coraggio di denunciare le violenze subite non si trovano completamente a loro agio nei centri anti-violenza, indubbiamente fondamentali per le loro attività, perché hanno bisogno di spazi dove non ci si concentri solo su quelle tematiche. Spesso hanno bisogno di più strumenti insieme per ricostruire un percorso di vita interrotto, smembrato dalla migrazione, rimettere insieme pezzi di identità e trovare il modo per convivere con tradizioni culturali diverse dal luogo di approdo.
Olga, ingegnere della centrale di Chernobyl, anni fa era migrata in Sicilia con il marito, poi si ritrova a Imola come operatrice di cura. Frequentava i corsi di italiano a Trama, poi sparisce per un po’. Un giorno all’improvviso le donne di Trama ricevono una telefonata dall’ospedale. Olga ha avuto un ictus che le ha bloccato tutta la parte destra e si ritrova sola, senza nessuno sostegno, perché la famiglia presso cui lavorava non la vuole più. Quando viene dimessa le donne di Trama la vanno a prendere in macchina all’ospedale e lungo il tragitto lei sembra stupita di vedere alberi e paesaggi attorno. Non sembrava conoscere il luogo dove abitava e lavorava da due anni, perché “erano due anni che non uscivo di casa”.
“Molte le donne che vengono tenute come e vere proprie ostaggi nelle case dove svolgono lavoro di cura – racconta Tiziana – e spesso le famiglie delegano totalmente la relazione con l’anziano/a, facendo leva sul fatto che vengono pagate per quello e nel caso delle irregolari si crea una sorta di ricatto “. Tutto ciò ha effetti immediati sulla salute psichica (ci sono casi di ictus, infarti, abuso di alcol) delle migranti, già provate nel loro vissuto, e a cui viene richiesto, nel lavoro di cura, di sostenere un carico emotivo oltreché fisico che andrebbe redistribuito in tutta la famiglia con il sostegno delle istituzioni e dei servizi preposti.

Anche perché, prosegue Tiziana, con la sanatoria del 2002-3 il fenomeno del lavoro di cura è esploso anche dentro Trama: “non avevamo capito neanche noi la portata e la gravità delle storie che stanno dietro queste donne”. Molte in quegli anni arrivavano dal sud d’Italia dove erano pagate la metà di quel che avrebbero dovuto prendere e poi molte vennero regolarizzate al Nord Italia. Dopo i ricongiungimenti familiari, il sostegno a donne scappate di casa o per trovare lavoro e assistenza, Trama ha così lavorato per sconfiggere l’ennesima invisibilità sociale di donne che esistono ma non contano.
Eppure dopo dieci anni di attività, progetti, esperienze condivise il centro interculturale rischia di chiudere, perché non riesce più a sostenere i costi. Le convenzioni pubbliche, che sono diminuite negli anni non danno sostegno ai costi delle attività e dell’affitto della sede. Per ora le amministrazioni locali sembrano sorde, nonostante il prezioso lavoro svolto nell’unico centro interculturale di donne in Italia. Così accade che molti singoli rispondano ad attività e appelli di Trama, ma non la politica dei palazzi. “È come se da parte della politica ufficiale ci fosse la concessione a farci fare il lavoro sporco ma non sapesse legittimare il valore di questo lavoro e assumerlo come modo di fare politica con i migranti in generale”, conclude Tiziana.

pubblicato su Liberazione, settimanale, www.liberazione.it



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