Barbara Bonomi Romagnoli | Lascia che domani sia bel tempo – intervista ad Abdelkader Benali
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Lascia che domani sia bel tempo – intervista ad Abdelkader Benali

Amsterdam

È considerato uno dei maggiori talenti della letteratura olandese contemporanea, poco più che trentenne ha già scritto diversi romanzi, testi teatrali, racconti e poesie.


Abdelkader Benali, nato in un villaggio del Marocco e cresciuto a Rotterdam dall’età di 4 anni, ama la letteratura ungherese e portoghese, in particolare Pessoa con i suoi tanti eteronimi: “Mi piace questa molteplicità dell’autore. Con Álvaro de Campos, Ricardo Reis o Bernardo Soares, Pessoa crea lo scrittore che si rivela attraverso differenti volti”. Ci incontriamo nella sua casa di Amsterdam per parlare del terzo romanzo tradotto in italiano e appena pubblicato. “La vedova spagnola” (Fazi editore, 234 pagine, 16 euro) racconta della guerra civile in Spagna, di una donna che ha avuto novantanove amanti ma ha amato un solo uomo, di un ragazzo alla ricerca delle proprie radici nel Paese dal “Regime senza colore” e della giusta leggerezza per affrontare la vita.

Carmen Lopez de La Madrid è la vedova spagnola, donna affascinante e seducente. Perché hai scelto di raccontare la guerra civile in Spagna?
L’idea originaria era quella di raccontare il conflitto spagnolo dalla prospettiva di un soldato marocchino. Una sera, avrò avuto 9-10 anni, stavamo guardando un documentario in tv su Franco e mio padre iniziò a fare i nomi di uomini della nostra famiglia che parteciparono a quella guerra accanto a Franco. Da allora mi sono chiesto il perché di quella scelta e ho iniziato a indagare. Franco parte da Melilla e lì organizza un primo gruppo di soldati marocchini per andare in Spagna. Prende soldati semplici, ignoranti, che lo fanno per soldi e fame. Da qui è nata l’idea della storia.

Ma poi il personaggio è mutato, il soldato marocchino diventa la conturbante Carmen…
Sì è cambiato completamente. Forse non riuscivo a prendere distanza dai quei fatti familiari. Così è nato l’altro personaggio, Malik Ben, che non conosce la sua storia e le sue radici. Sulla nave da crociera accade che lui, che sta cercando la Storia, incontra Carmen che invece in un certo senso sta per lasciare la Storia. Da un lato c’è Malik che non capisce qual è il suo posto nel mondo, dall’altro la vedova che sa benissimo il suo ruolo qual è.

Dopo questo viaggio, una sorta di educazione sentimentale, Malik Ben diventa “chirurgo dell’anima”, aiuta le persone a ritrovare l’autenticità. Che vuol dire essere autentici?
Nel libro ho voluto ironizzare sull’attuale società che cerca e al contempo fugge l’autenticità e le pure identità. Non conosciamo più cos’è e forse non vogliamo neanche saperlo. Abbiamo vissuto il periodo del post modernismo in cui l’autenticità non esisteva. Tutto era finto e costruito. Poi dopo l’11 settembre il tema dell’autenticità è tornato di colpo a casa in Occidente, con l’idea che solo con un’autenticità forte possiamo battere tutti i nostri nemici perché loro invece ne hanno una. Credo sia un grosso errore, penso che in Europa c’è una pluriformità d’identità che costruisce il mosaico di questo continente ed è questa la sua ricchezza.

Malik diventa obeso, arriva a pesare 140 chili. Una sorta di anoressia al contrario per la perdita del sogno d’amore. Possiamo dire che è anche un modo per resistere?
Sì ed è anche una forma di inerzia. È un po’ il simbolo della scrittura stessa. Quando devi scrivere ti metti seduto, poi però non riesci sempre a scrivere la storia che pensi, non riesci a metterti in contatto con la tua anima e la tua ispirazione. Allora diventi grosso di frustrazioni ma anche di storie e possibilità che non riesci a esprimere. Tutto ciò alimenta anche una sorta di coscienza critica che ti rende consapevole che più storie hai meno puoi raccontarle. Anche ne “La lunga attesa” c’era lo stesso dilemma…

Entrambi i romanzi hanno trame complesse…
Sì con molte digressioni che mi aiutano a sfuggire dall’idea del romanzo classico che io non voglio scrivere. Non mi interessa un intreccio con uno scenario semplice e una sequenza lineare o con personaggi ben definiti. Con le digressioni capisco meglio quello che io stesso voglio descrivere.
Il problema principale del nostro tempo è che vogliamo sentire sempre nuove storie ma non riusciamo a dirle né a creare un pubblico per questo. Le persone sono così occupate dalle banalità della vita, la loro libertà è districarsi fra tv, video, dvd, play station… è difficile per chi vuole raccontare storie trovare un pubblico.

Sembra che tu lo abbia trovato, sei diventato, giovanissimo, uno dei maggiori scrittori olandesi…
E chi lo dice? [ride]

Come reagisce il pubblico olandese ai tuoi libri?
Dicono sempre: “interessante ma difficile”. Per via del linguaggio, ma io non voglio scrivere libri che diano l’impressione che sono scritti “per te”, voglio scrivere libri che abbiano un loro ritmo in sé, indipendentemente da quello che può essere immediatamente compreso. Sono questi i libri che hanno una vita dopo la lettura.

Effettivamente tu conosci e parli più lingue. Per scrivere usi solo l’olandese?
Il berbero è la mia lingua emozionale e sentimentale ma è totalmente diversa dall’olandese che uso per scrivere e che è la lingua in cui penso, reagisco, quella della mia formazione.
Voglio usare la massima possibilità di espressione della lingua olandese, se usassi altre lingue per dare ricchezza all’olandese vorrebbe dire che ho fallito.

All’indomani della uccisione di Teo Van Gogh sì è parlato di fallimento del modello multiculturale. Adesso com’è secondo te la situazione in Olanda?
Stanno accadendo due cose, la prima è che c’è sempre più divisione tra ricchi e poveri e la seconda è che la politica è diventata molto populista. Abbiamo in parlamento gente come Wilders, il Bossi olandese. Ogni settimana dice che la situazione non potrebbe essere peggiore di così. Più che il razzismo, mi preoccupa il populismo. Prendi la discussione sul doppio passaporto. È come se ci fosse gelosia e invidia del migrante che ha due passaporti, si pensa che abbia più libertà. Qual è il problema, in che cosa sarebbe diverso un povero ragazzo che ha due passaporti? Siccome il populista di turno ha messo questo problema in agenda, allora il ragazzo diventa un personaggio strano quasi demoniaco. Tutto ciò è stupido. I migranti della seconda generazione hanno una percezione più leggera dello stato delle cose. Sto facendo un corso alla Libera università di Amsterdam e ho molti ragazzi di origine marocchina che hanno studiato o vanno all’università. Loro non pensano alla politica ma al fatto che questo tempo è molto buono per loro, hanno possibilità maggiori di lavorare proprio in virtù della loro doppia nazionalità.

Eppure c’è chi sostiene come Fleur Jurgens in “Het Marokkanendrama” che molti giovani di seconda generazione non riescano ad integrarsi…
È un gruppo di 200 persone che vivono qui ad Amsterdam ma sono criminali, è un problema sociale. Non si può generalizzare, è come se dicessi “tutti i romani”… ma certamente è molto difficile combattere la stupidità della gente, io non posso battere la vox popoli, sono uno scrittore e posso provare a giocare con le parole e la poesia. Del resto alla fine degli anni settanta venivano presi di mira i surinamesi, poi i marocchini adesso tocca ai polacchi…
In fondo l’Olanda è un paradiso, no? Vai a farti un giro sul Witte Singel, tutto perfetto con l’erba, il sole, i canali, la gente è tutta nelle barche da 30mila euro, sorseggia prosecco da 5mila euro. Wow! E se chiedi loro come va, ti rispondono questo Paese va male! È l’ipocrisia della classe medio-alta e credo che tutte le classi hanno diritto di essere ipocrite…

Insomma sei ottimista, credi davvero nel detto del padre di Malik che è anche il titolo originale del romanzo: “Lascia che domani sia bel tempo”…
Sì è una forma di ottimismo, come gli arabi che dicono sempre Insha’Allah. La voce del padre di Malik è la mia voce, lui è il mio personaggio preferito, ricomincia da zero, fa di tutto per sopravvivere ma con molta leggerezza e umorismo.

Un’ultima domanda, come mai sei stato in Libano lo scorso anno durante la guerra?
Mi sono trovato lì per motivi personali, all’inizio non facevano neanche partire, poi mi sono detto che era una grande opportunità per me poter scrivere di quello che stava accadendo, anche per raccontare in maniera differente da come lo avrebbero fatto i media ufficiali. La guerra è durata 34 giorni e ho iniziato a tenere un blog che poi è diventato un libro “Notizie da una città sotto l’assedio”.
Ti confronti con la morte, che del resto fa parte della nostra vita, e hai paura. Alla fine mi son detto: “ok se dovessi morire vorrà dire che sono morto da scrittore”.

(pubblicata in versione ridotta su Liberazione, www.liberazione.it)



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