Barbara Bonomi Romagnoli | Le vie della droga – intervista ad Alessandro Scotti
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Le vie della droga – intervista ad Alessandro Scotti

I libri di Isbn hanno spesso copertine bianche che quasi non si vorrebbe toccare, ma nel caso di “Narcotica” di Alessandro Scotti (380 pagine + immagini e dati, 17 euro) si arriva a fine lettura contenti di vedere il bianco sporco. È un libro che si presta ad essere consumato, che si porta dietro ovunque: nell’autobus, nel bar e si legge come un romanzo, sapendo già che non c’è fine.

Perché le tante storie che Scotti narra sono un lungo viaggio, compiuto dall’autore in sei anni tra Asia, Africa e America Latina alla ricerca delle vie del narcotraffico – il più globale e capillare dei mercati – e delle strade che portano direttamente alla fonte, a chi con la droga ci vive o ci sopravvive. Ogni capitolo del libro è un ritratto, un intreccio di testo e immagini in bianco e nero dove si susseguono personaggi più o meno anonimi, coltivatori, intermediari, mercenari, donne eroinomani sotto il burqua, gruppi armati rivoluzionari, scienziati che studiano i tossicodipendenti e quasi ovunque uomini e donne consapevoli di quel che fanno ma che difficilmente superano la soglia di povertà. Un lavoro che unisce reportage, inchiesta e in qualche modo denuncia di qualcosa che coinvolge tutto il mondo ma anche un’opportunità per “contribuire ad un abbozzo di dialogo fra realtà lontane; nella convinzione che lo scambio sia l’unico approccio plausibile per affrontare problemi la cui soluzione è tutt’altro che evidente.”

Questo libro parla della geopolitica della droga e di territori in movimento, soprattutto in Asia Centrale. Che rapporto c’è tra la caduta dell’ex Unione Sovietica e la nuova geopolitica del narcotraffico?
Il contesto storico ha avuto un peso significativo, è stato importante per ridefinire le rotte attraverso, ad esempio, Pakistan e Iran. Le repubbliche dell’Asia Centrale, finché c’era l’Urss, avevano un equilibrio che comunque è stato intaccato in maniera violenta. Il Tajikistan è lo stato con il confine più ampio con l’Afghanistan e ha sempre avuto un legame forte con quel confine sensibile, dove comunque c’era un equilibrio. Dopo la caduta dell’Urss il paese ha vissuto una guerra civile durata sette anni.
Con quali conseguenze?
In questi casi si assiste a delle economie che crollano repentinamente e tra le vie di uscita c’è anche quella droga. Da un lato c’è il fatto che prima della guerra civile il Tajikistan viveva grazie all’uranio, o ad esempio, l’Uzbekistan con il cotone perché l’ex Unione Sovietica si fondava sullo sfruttamento specifico di queste risorse. Dall’altro sappiamo che le guerre civili già di per sé sono un humus fecondo per i traffici illeciti e questi spesso diventano una reale occupazione per molte persone ridotte alla fame o senza concrete alternative.
È quindi un contesto specifico a favorire il narcotraffico…
Ci sono delle cose, che sembrano banalità ma che sono significative, come l’isolamento o la mancanza di infrastrutture.
Se vuoi sopravvivere devi poter commerciare con prodotti durevoli e poco deperibili come lo sono l’oppio e la coca lavorata, diversamente da quelli tradizionali come il caffè o i pomodori per fare un esempio.
Da dove è nato questo progetto, sono arrivate prima le foto o prima la scrittura?
Il mio background è sicuramente la scrittura, ma la fotografia è una grande occasione. Ti impone di vedere da vicino le situazioni, non lascia spazio alla pigrizia come invece a volte accade con la narrazione scritta. E ti impone anche una relazione diretta con quello che vuoi raccontare.
In un capitolo accenni al senso di colpa, all’opportunità o meno di scattare una foto in determinate situazioni. È stato più forte il senso di colpa o la paura?
La pratica della foto a volte te la mette in faccia la paura, ma possono esserci entrambi, dipende. Credo che sia andato perso negli ultimi dieci anni il ruolo di osservatore profondamente attivo. Con internet e i mezzi capillari di informazione si è spostata l’importanza sulla storia. Ma penso che l’atto di osservare abbia un impatto sulla realtà, non è indifferente. In molti casi si tratta dell’occhio del mondo che restituisce dignità a situazioni che potrebbero sentirsi neglette, non conosciute.
Hai sentito disagio nel trovarti in quei luoghi in duplice veste: giornalista freelance e osservatore Onu?
Non ho vissuto i due ruoli in conflitto, anche perché sono stato lasciato totalmente libero di fare. Inoltre quando ti muovi come Onu, in qualsiasi paese tu sia non sei mai un ospite, perché il paese stesso è parte di questa comunità internazionale. È un fatto molto significativo. Quello che gioca un ruolo centrale è la relazione che instauri ed essa è sicuramente frutto anche del lavoro svolto dalle Ong.
Il libro si chiude in Africa con un uomo che ti grida: “Che cosa fai qui? Questo non è posto per te, uomo bianco! Corri! Corri!”. Quanto ha influito l’essere bianco, occidentale, durante il viaggio?
La bianchitudine ha indubbiamente influito, i rapporti che si creano non prescindono da questo. È tutto più faticoso ma anche positivo. Del resto, non credo nel mimetismo totale perché non è così: hai la tua casa, la tua cultura. Il valore aggiunto torna nelle relazioni che costruisci, se cerchi di comprendere l’altro come una realtà che non conosci ma che vuoi incontrare.

pubblicata su Peacereporter mensile, www.peacereporter.net



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