Barbara Bonomi Romagnoli | Nè Putin nè Kadyrov, Cecenia mon amour – intervista a Milana Terloeva
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Nè Putin nè Kadyrov, Cecenia mon amour – intervista a Milana Terloeva

Una foto del 2002 ritrae Milana Terloeva nella sua cucina di Groznyi, la guerra è in corso e per qualche giorno dà rifugio alla giornalista francese, Francoise Spiekermeier, che scatterà diverse immagini di quella strana quotidianità che Milana e il suo popolo hanno imparato a vivere. Nella foto è ancora una studentessa, ad incontrarla oggi è una donna elegante che parla adagio ma con determinazione.

Così del resto è la scrittura del suo “Ho danzato sulle rovine” (Corbaccio editore, pag. 186, 14 euro), una prosa giornalistica scarna ma non priva di suggestioni, un racconto in cui scopriamo una Cecenia che in pochi ci hanno raccontato, o chi lo ha fatto, come Anna Politkovskaja, ha pagato con la vita. Milana racconta senza filtri quello che è accaduto in questi anni ad un popolo alla ricerca di pace ma anche di riconoscimento da parte del mondo. Un popolo che non conosce l’Olocausto perché espunto dai libri di storia ma che ha viva la memoria della propria deportazione, voluta da Stalin nel 1944, convinto che ceceni e ingusci avessero collaborato con il nazismo. Dopo il crollo dell’Urss, arriva l’indipendenza e poi la guerra, in un crescendo di violenza agita dall’esercito russo, miliziani e criminali, fomentati anche da sacche di integralismo religioso. Adesso la Cecenia è un mondo grigio, che fatica a vivere, e nel tornare a casa dopo un periodo in Francia, Milana si chiede se non sia questo “l’inferno, un mondo dove tutto è grigio tranne le foto di un ex agente del Kgb che si congratula con il suo servo”. Ogni riferimento a Putin e Kadyrov, attuale presidente della Cecenia, è puramente voluto e più volte ripetuto nel testo. Non fa sconti Milana, neanche all’Europa troppe volte distratta e poco interessata a mettere fine “al nostro calvario”.

Quando ha capito che voleva scrivere un libro sulla sua esperienza?
È stato durante la seconda guerra cecena che mi sono detta che volevo raccontare la mia rabbia e che probabilmente avrei voluto uscire dal mio paese per dire la verità. Mi dicevo che il minimo che potessi fare era testimoniare, dire quello che avevo visto. Ancora mi domando se serve e non so darmi una risposta, ma ho sentito che dovevo farlo. Ho avuto la possibilità con il progetto Etudes sans Frontieres (associazione fondata tra gli altri da André Glucksmann, n.d.r.) di andare in Francia ed è stata una grandissima opportunità.

Ha scritto il romanzo direttamente in francese, come mai questa scelta e non invece la sua lingua madre, probabilmente più adatta a descrivere l’intimità e le emozioni di certi passaggi?
Non avrei potuto scrivere in ceceno al limite in russo che è la nostra lingua ufficiale, quella con cui studiamo e, infatti, all’inizio avevo pensato al russo. Poi nel frattempo, quando mi hanno proposto di scrivere questo libro, il francese era diventata la lingua con cui mi muovevo a mio agio, anche perché è in francese, alle prime conferenze e incontri, che ho iniziato a parlare di Cecenia e a raccontare la verità sulla guerra. Così alla fine è stato più semplice scrivere in francese, ma non mi sento in colpa per questo.

Lei ha deciso di tornare in Cecenia, una scelta coraggiosa, considerato il contesto e il libro che ha appena scritto. Dice che vorrebbe creare un “mensile apolitico”. Non crede che in realtà questa sua decisione sia già un fatto politico forte?
Rientrare nel mio paese non è stato un atto politico ma naturale. Trovo naturale voler rientrare dopo essere stata fuori a studiare, ad imparare e appena tornata non potevo certo mettermi a fondare un giornale libero che dica la verità e che non sia come gli altri che sono legati a filo doppio con il potere. Ma il progetto resta e vorrei fare tesoro in futuro del lavoro che sto facendo ora con la Ong Memorial (ong russa, fondata a Mosca dal dissidente Andrei Sacharov, n.d.r.), che è restata in Cecenia nonostante i rischi e sta facendo davvero molto per il nostro popolo.

Ad un certo punto lei scrive che c’e stato un prima e dopo Beslan e dal suo racconto si capisce che la società civile è stata schiacciata tra le violenze sia dell’esercito russo che di alcuni combattenti della resistenza, in alcuni casi accecati dall’odio. Cosa può fare la società civile per reagire a tutto questo?
Finora malgrado tutto, malgrado questa guerra e direi malgrado l’inferno, i ceceni sono riusciti a rimanere umani. Già questo è un fatto enorme. Malgrado Beslan i ceceni non hanno mai accettato di scendere al livello dei russi e dei miliziani. Putin è riuscito a chiudere questo popolo, a serrarlo e forse a a spezzarlo al punto che il popolo è così stanco che non pone più condizioni, vuole solo la pace e la possibilità di vivere normalmente, mandare i figli a scuola e lavorare. E non creda che il mio libro sia il primo che dica certe cose, ci sono tanti altri che hanno detto e scritto.

Dal suo racconto emerge una delle tante forme che può prendere l’Islam, diversa dai soliti stereotipi. Che peso ha avuto la fede nella sua esperienza?
Per quanto mi riguarda preferisco non parlarne, ma sicuramente in generale, per la popolazione cecena che si è trovata di fronte ad un potere di questo tipo, così violento e forte, la religione è un appiglio importante. Tutti i giorni vedi la morte, i tuoi cari spariscono e allora speri che i morti stiano meglio dei vivi. Sì in Cecenia l’Islam si è mescolato alle altre tradizioni preislamiche ed è stata la maniera per opporre resistenza al fondamentalismo. I ceceni difficilmente accettano imposizioni, vale anche per la religione.


pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it



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