Barbara Bonomi Romagnoli | Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme – intervista ad Adriana Cavarero
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Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme – intervista ad Adriana Cavarero

Non sempre le parole riescono a restituirci le cose e gli accadimenti che ruotano attorno alle nostre esistenze. Capita che si proceda in maniera incerta, si utilizzi un linguaggio approssimativo, ma in alcune situazioni ciò è anche il sintomo di una mancata presa di responsabilità. È il caso, tra gli altri, della politica che resta muta o parla impropriamente dell’orrore che quotidianamente colpisce vittime inermi. Adriana Cavarero, docente di filosofia politica all’Università di Verona, femminista e tra le fondatrici della Comunità filosofica “Diotima”, ha ragionato attorno a queste tematiche nel suo ultimo libro “Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme” (Feltrinelli, 170 pag. 14 euro).

Cavarero è del parere che “tutta la terminologia militare e politica ancora in uso – guerra, nemico, terrorismo – non colga più il senso degli eventi. La scena odierna della violenza non presenta eserciti che si fronteggiano e attivano una mattanza reciproca. Presenta invece una massacro unilaterale di vittime inermi, per di più definite ‘danni collaterli’ oppure ‘infedeli’. Al centro di questa scena sta un puro orrore. Da qui la parola ‘orrorismo’ che ho messo come titolo del mio libro”. 


Nel suo testo suggerisce di cambiare prospettiva: posare lo sguardo non su chi agisce ma su chi subisce la violenza. Per andare oltre e costruire un’ontologia della vulnerabilità. Può spiegare meglio questo ultimo concetto?

Come esseri umani nasciamo inermi e vulnerabili: siamo esposti alla cura oppure alla violenza dell’altro. Nel nostro modo di essere – nell’ontologia che ci riguarda – la vulnerabilità è un dato fondamentale. Ciò è molto evidente nell’infanzia e, di nuovo, nella vecchiaia e nella malattia. Ma rimane un tratto dell’intera esistenza. La violenza che si scatena su gente inerme è, in questo senso, un crimine ontologico. Ciò si mostra clamorosamente nei genocidi e negli stermini e, più in generale, nelle guerre contemporanee che ormai fanno strage solo di civili (circa il 90 per cento dei morti), ma anche in gran parte degli attentati terroristici. Usare il verbo ‘uccidere’ è, del resto, troppo poco: il corpo viene smembrato, mutilato, ridotto in brandelli. C’è un’offesa intenzionale alla dignità umana.


La sua indagine intreccia filosofia, cronaca e mito. Quanto è ancora importante il mito dell’antica sapienza greco-romana per leggere e interpretare il presente?

L’immaginario così come la simbologia della tradizione occidentale ha le sue radici nel mito antico. Per esempio, nessuna icona rappresenta l’orrore meglio di Medusa. È una testa mozzata che agghiaccia e paralizza. Fa rizzare i capelli: il che corrisponde alla radice etimologica del termine orrore, come si evince dal termine italiano ‘orripilante’. Mentre l’etimologia del nome «terrore» allude al tremore e alla fuga di fronte a una minaccia di morte violenta, quella dell’«orrore» evoca invece a un crimine ontologico che va, per così dire, al di là della morte. Le vittime del genocidio armeno o della Shoà non sono state «semplicemente» uccise. Ciò che è in gioco ad Hiroschima, presso le Twin Towers e in altri atroci scenari della moderna storia della distruzione non è l’uccisione del nemico. È piuttosto la messa in atto di un orrore che lavora a disfare il senso dell’umano in quanto umano. Ma nel libro parlo anche di un’altra figura mitica: Medea. Come infanticida rappresenta il crimine ontologico allo stato puro. In ogni massacro dell’inerme c’è un marchio infanticida e ciò risalta ovviamente ancor di più quando – come nel caso delle attentatrici cecene o ad Abu Ghraib – il criminale è una donna.

Veniamo all’uso improprio del linguaggio, ad esempio in italiano si utilizza la parola kamikaze per indicare gli attentatori suicidi. Purtroppo i media sono spesso cassa di risonanza per l’uso di termini scorretti. Crede che sia possibile invertire questa tendenza? Che ruolo può giocare la filosofia?
Non credo che la filosofia possa fare granché. Come studiosa del linguaggio politico ho tuttavia tentato di sottolineare la confusione concettuale che caratterizza, oggi, certi termini, usati dai politici e dagli analisti prima ancora che dai media. ‘Terrorismo’, per esempio, oggi è un vocabolo vago che copre fenomeni fra loro disparati e, anche secondo gli specialisti della materia, vuol dire tutto e niente. ‘Danni collaterali’ è una menzogna. ‘Guerra umanitaria’ è un ossimoro. Io propongo di coniare un lessico della violenza guardandolo dalla prospettiva della vittima inerme invece che da quella, tradizionale, del guerriero. ‘Orrorismo’, nelle mie intenzioni, dovrebbe comparire come lemma di questo vocabolario nuovo e, soprattutto, necessario.

Lei cita Sontag e la sua riflessione sull’immagine e sulla fotografia. Riguardo a questi temi è stato anche detto che “nell’era del voyeurismo generalizzato, lo scontro di civiltà è un sottogenere dell’immenso mercato pornografico”. È d’accordo con questa definizione?
Lo scontro di civiltà è un’espressione, semplificatoria e faziosa, che non condivido. Constato però, ovviamente, il marchio spettacolare dell’orrorismo contemporaneo. Basti citare, oltre all’11 settembre, gli sgozzamenti in video o le foto souvenir di Abu Ghraib. Dietro tutto questo non c’è solo la società dello spettacolo e il ruolo dei media, ma anche una volgarizzazione commerciale dell’horror, in versione pornografica o sadomaso, che proviene da certi vizi della psicanalisi e della filosofia (a questo proposito, muovo una dura critica a Bataille ed Hillman). L’erotizzazione dell’orrore, unita alla retorica guerrafondaia del corpo spappolato, costituisce il lato più disgustoso dell’orrorismo contemporaneo.

Il pensiero della differenza sessuale e quello di Hannah Arendt sono due punti saldi della sua riflessione. In che modo a partire da questi spunti teorici è possibile ridare senso e spessore all’etica e alla politica?
Hannah Arendt è, per me, innanzitutto un modello di coraggio intellettuale nel ripensare la politica a partire dalle scene più atroci della violenza della propria epoca. Non voltarsi dall’altra parte, non rinunciare al senso: comprendere senza giustificare. È comunque cruciale che, di fronte al laboratorio di Auschwitz che trasformava gli internati in «esemplari della specie umana» e in «esseri assolutamente superflui», Arendt proponga un concetto di politica basato sulla relazione e sull’esposizione reciproca. Anche il pensiero della differenza sessuale insiste sulla categoria di relazione e tenta di praticarla. Ambedue le prospettive – per lo meno nella mia lettura – sentono inoltre l’urgenza di coinvolgere, nella questione della politica, il piano dell’ontologia e dell’etica. Non basta smontare il punto di vista del guerriero o del sovrano, i loro codici gerarchici, i loro dispositivi disciplinari. È necessario mettere in gioco un altro punto di vista radicato nella condizione umana: che è, appunto, una condizione di vulnerabilità, di reciproca esposizione e di dipendenza.


Se l’orrore è donna si grida maggiormente allo scandalo, tornano gli stereotipi sulla bontà femminile e via dicendo. Cosa risponde a chi cerca soprattutto di trovare giustificazioni alle donne carnefici più che vittime?

Ho già citato Medea. La figura materna è una figura di grande e ambigua potenza. Come mostra l’ossessivo interesse mediatico per i fatti di Cogne, tutti sanno che la cura dell’assolutamente inerme ha come risvolto la violenza sullo stesso. C’è poi una certa – e giustificata – tendenza ad identificare le donne con le vittime, comprese le carnefici che sarebbero vittime di un contesto marcatamente patriarcale. In Orrorismo però il mio accento non va sulla posizione della vittima bensì sulla vulnerabilità della condizione umana. Detto altrimenti, non mi allineo al vittimismo femminile. Tento di dire l’enormità del crimine perpetrato sull’inerme. 

Aldilà di donne che si immolano o che torturano, resta l’ambiguità di un corpo di donna mai come ora campo di battaglia per guerre altrui. Le ultime vicende italiane – penso alla legge 40, alla proposta di funerale dei feti – sembrano mettere a repentaglio le conquiste fatte dal femminismo degli anni 70…
Penso che il principio dello stato laico attraversi un momento di grande debolezza e che la religione stia occupando innanzitutto, e molto strategicamente, gli spazi dell’ontologia e dell’etica. Chi discetta sulla vita, sul suo fondamento e sulla sua origine, discetta ovviamente sul corpo femminile. Le conquiste femministe degli anni 70 erano l’espressione più evidente – e più avanzata oltre che autonoma – di un risveglio generale della politica, ossia si muovevano nel contesto culturale di una politica disposta a mettersi in discussione nel suo stesso assetto concettuale. L’involuzione odierna della classe politica italiana, autoreferenziale e conservatrice, lascia libero il terreno per discorsi sui fondamenti del bene e del male che possono contare sulla forza di una tradizione millenaria oltre che sulla grancassa compiaciuta di certi media.


pubblicato su Aprile mensile, www.aprileonline.info



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