Barbara Bonomi Romagnoli | Per favore, basta parlare delle donne come vittime
139
post-template-default,single,single-post,postid-139,single-format-standard,ajax_fade,page_not_loaded,,select-theme-ver-1.6.1

Per favore, basta parlare delle donne come vittime

Perplessità e anche un po’ di fastidio. Queste le mie impressioni dopo aver assistito al documentario-fiction “La vittima e il carnefice” di Mauro Parissone e Roberto Burchelli – che andrà in onda oggi su Rai Tre – e più volte sono saltata sulla poltrona durante la proiezione. A cominciare dal titolo scelto. Non si può continuare a parlare di violenza maschile sulle donne, definendo quest’ultime sempre e soltanto vittime.

A rafforzare l’idea comune di donna come persona fragile, indifesa e debole che ha bisogno di una tutela e di un sostegno, possibilmente maschile e magari all’interno della famiglia. Ossia il luogo dove maggiormente avvengono le violenze per mano di mariti, compagni, fidanzati, nonni e via dicendo. È inutile ripetere dati che ormai conosciamo bene, tra cui quelli che ci dicono che la stragrande maggioranza dei casi riguarda uomini italiani. Rispetto a questo effettivamente il docu-film è stato costruito bene, racconta soltanto le violenze che avvengono dentro le mura domestiche e potrebbe servire a smontare il tremendo senso comune che sia lo straniero, anni fa era albanese oggi preferibilmente Rom, a violentare le “nostre” donne.
Nel film gli uomini sono italianissimi, anche se poi alla fine un filippino ce lo hanno infilato lo stesso, non sia mai che una volta tanto si parlasse solo dei panni sporchi in casa nostra, senza additare altove le responsabilità.
E sempre perché non si vuole turbare troppo l’ordine costituito, guarda caso le storie raccontate si riferiscono tutte ad uomini che vivono situazioni di disagio: o sono disoccupati o sono pregiudicati o sono ubriachi. Nessun professionista, nessun imprenditore o compagno universitario. Come se a compiere violenza – fisica o psicologica – fossero solo i poveri sfigati o, come è stato detto durante la presentazione dell’anteprima, la violenza fosse conseguenza di “nevrosi”. Ma stiamo scherzando? Quale nevrosi, nervosismo o esaurimento nervoso. La violenza maschile sulle donne è questione culturale e riguarda il rapporto di potere tra i sessi, nelle sue diverse sfumature. Molti uomini sono violenti non perché bevono e fumano ma perché sanno che possono farlo, che c’è una cultura che li giustifica e legittima, che è pronta a dire che è la donna che lo ha provocato o si è mostrata troppo debole. Come viene ripetuto in una delle storie del film, dove la protagonista, presentata come donna emancipata che ha studiato, è stata sì capace di lasciare il suo “carnefice” ma non fa tutto quello che il poliziotto “amico” le consiglia di fare.
Anche sulle forze dell’ordine così presenti nel film, che si dica quello che veramente va detto. Vale a dire che per un meritevole commisario così interessato a queste vicende ce ne sono molti che rispediscono le donne a casa dicendo che non possono intervenire o che debbono portare pazienza.
Tra l’altro, nel voler portare a conoscenza del grande pubblico queste storie, perché oltre al lavoro svolto dagli investigatori delle forze dell’ordine non si è andato a filmare quello svolto nei centri antiviolenza? È lì che operano competenze specifiche che spesso vanno a colmare i vuoti del sistema legislativo ma soprattutto spezzano il circolo vizioso del senso di colpa e smontano gli stereotipi culturali. Sono senza dubbio molto bravi e pazienti gli agenti – maschi e femmine – che vediamo nel film. Ma non sono tutti psicologi nè preparati ad affrontare la questione con un approccio culturale differente, se per calmare gli animi dicono alla donna che “è brava, si vede che ha le palle” o all’uomo che la donna ha diritto ad uscire, a fare quello che vuole tanto “un piatto di pasta lo fa anche in un quarto d’ora”. Ancora l’immagine della donna che può, anzi deve, emanciparsi, ma poi è sempre lei l’angelo del focolare, detentrice della cura e del soddisfacimento dei bisogni.
Davvero non se ne può più. Se veramente si vuole infrangere l’omertà collettiva che alimenta la paura e la vergogna di nominare, prima ancora di denunciare, le violenze maschili sulle donne, si chiamino in causa gli uomini non le donne. Alla fine, la figura di Caterina, l’unica donna nel film a parlare in prima persona e a volto scoperto, è quella più autentica. La sua storia ci dice chiaramente che molte donne la forza per voltare pagina ce l’hanno, ma restano prigioniere dentro mura che da sole non possono abbattere. Non perché sono vittime ma perché oltre a cambiare le leggi bisogna trasformare le teste e le relazioni tra i sessi. Non basterà la legge sullo stalking se non si intende lavorare su questo. Di sicuro non lo farà la ministra Carfagna se il suo punto di partenza è che “la famiglia è un luogo di realizzazione per la donna, al pari del mondo del lavoro” e che “i divorzi, separazioni ed affidamento dei figli causano gran parte delle tensioni e dei reati realizzati all´interno della famiglia”.
Non è così, non ci resta che ripeterlo, continuare a prendere parola pubblica e collettiva senza avere paura di denunciare il nesso che c’è tra sessismo, familismo e razzismo.


pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it



Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi