Barbara Bonomi Romagnoli | SignorinaEffe. Torino,1980: Il nuovo film di Wilma Labate
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SignorinaEffe. Torino,1980: Il nuovo film di Wilma Labate

Una storia d’amore, ma anche la vicenda di una città, Torino e il suo Lingotto, e di una “classe”, come si diceva allora, che ha perso una battaglia importante nel 1980, segno dell’inizio della globalizzazione e di quel che ne è scaturito: perdita del senso di appartenenza, della centralità del lavoro e anche, forse, della forte spinta rivoluzionaria che aveva caratterizzato il decennio precedente. “Signorinaeffe” il nuovo film di Wilma Labate, regista romana nota tra l’altro per il film candidato all’Oscar dall’Italia “La mia generazione”, tiene insieme questi diversi elementi nel raccontarci quello che accade in quei trentacinque giorni di ottobre quando, allo sciopero e blocco della produzione degli operai contrari ai 15mila licenziamenti annunciati dalla dirigenza Fiat, i capi reparto, gli impiegati e i quadri della Fiat risposero con la marcia dei “40mila”: un fatto eccezionale, per molti uno spartiacque della nostra storia recente.

La narrazione ha un bel ritmo e scorre in maniera per niente didascalica, per alcuni un po’ troppo schematica, come hanno sottolineato molte delle critiche al film che non ha certo goduto di benevolenza da parte della stampa, tutt’altro. E siccome non ha incassato miliardi al botteghino, come i film di Moccia e simili, a fine gennaio la produzione ha pensato bene di toglierlo dalle sale. Che faccia troppo male il cinema impegnato e che dà da riflettere. Labate, infatti, ha scelto di recuperare un pezzo di memoria collettiva attraverso la narrazione di una vicenda privata che coinvolge due giovani e una delle tante famiglie operaie dell’epoca, emigranti dal Sud in cerca di casa e lavoro che, mediante i figli, vorrebbero tentare anche il riscatto sociale. Un bel gruppo di attori nel complesso si muove sulla scena, personaggi a primo impatto un po’ rigidi, che in realtà, con lo scorrere dei ciak, restituiscono bene il groviglio di sentimenti contrastanti che li agita. Perno della narrazione cinematografica è la figura (ispirata ad una storia vera) di Emma (la giovane Valeria Solarino), figlia brava e diligente dei Martano (madre casalinga e padre pensionato della Fiat) che è entrata in fabbrica in un ruolo già “alto”, che non ha mai scioperato ed è addirittura fidanzata con Silvio (Fabrizio Gifuni, ottimo per questo ruolo), ingegnere e dirigente nella grande azienda. Il terremoto si scatena quando Emma incontra Sergio (un bravissimo Filippo Timi), operaio in prima linea nelle lotte e nelle contestazioni, figlio anche lui di operai ma con una consapevole coscienza di classe, di cui la fanciulla prima si innamora e poi lo lascia perché oggi intanto la battaglia è persa, domani chissà. Attorno a loro figure minori ma in alcuni casi esemplari, come le poche ma determinanti battute della nonna (la perfetta Clara Bindi), le scorribande di Magda (la calorosa come sempre Sabrina Impacciatore) che da brava sorella “pecora nera” della famiglia non poteva che innamorarsi del giovane e un po’ confuso Antonio (Fausto Paravidino, anche lui nel ruolo più adatto). Vedere il film due volte fa bene sia per cogliere le varie sfumature che per superare quel senso di irrisolutezza che lascia in prima battuta un po’ perplessi.
Forse perché non era facile raccontare la lotta politica sullo sfondo di passioni comuni e perché quel che avvenne alla Fiat nel 1980 appare, seppur a distanza di quasi trent’anni, un episodio ancora irrisolto per gli stessi protagonisti dell’epoca. Un primo merito del film è quindi quello di aver riaperto la discussione, che nasce spontanea all’uscita delle sale non solo per via di giudizi estetici differenti, ma anche per le varie interpretazioni politiche e le diverse emozioni che provoca, estremamente divergenti se a vedere il film è uno dei giovani che stava allora in piazza o chi è giovane oggi e nel 1980 aveva cinque-sei anni, o non era nato, e non ha minimamente memoria storica di quei giorni.
È anche alle giovani generazioni che Wilma Labate si è voluta rivolgere, come ci spiega a margine di una proiezione pubblica organizzata a Roma da Left e Aprile lo scorso gennaio: “Mi sono chiesta in questi anni se le nuove generazioni, che a volte sembrano così distanti dalla politica, abbiamo davvero idea di cosa vuol dire licenziare dai 15 mila alle 23 mila persone. Sono un numero enorme, è come se venisse mandata a casa una intera città. Chi è oggi che si rende conto di questo?” – Labate parla decisa ma pacata, contrariamente ai suoi occhi che si muovono veloci sotto una cascata di morbidi riccioli – “Ecco da lì sono partita, oltre al fatto che volevo fortemente fare un film che raccontasse di una innegabile sconfitta, che secondo me ha segnato l’inizio della fine della classe operaia, da cui però non è impossibile ricominciare. Per questo ho scelto una scena finale aperta, dalle molteplici interpretazioni, perché vuole essere un segno di speranza”.
Come quella che ha certamente accompagnato la lunga gestazione che c’è dietro la realizzare di questo film, durata anni per mancanza di fondi e anche di interesse per un tema così maledettamente politico. Labate ha saputo essere tenace e costante fino a convincere i produttori, perché “il mercato non fa sconti, mi dicevano che la “fabbrica” non avrebbe incassato ma soprattutto che non interessava nessuno, per questo è stato necessaria anche la storia d’amore, senza quella nessuno ti finanzia. Adesso aspettano la prova botteghino e non sarà facile affatto”. Eppure la regista racconta di una grande partecipazione e mobilitazione spontanea quando è salita a Torino “nei diversi pellegrinaggi in Fiat, che ho fatto per capire quel luogo e la maniera di renderlo in pochi fotogrammi, e in tutta sincerità mi son detta anche che era una fabbrica inoccupabile, è grande come Latina”.
Molti gli operai di quella stagione che si sono presentati per fare le comparse, testimoniare la loro esperienza, un tesoro di racconti in prima persona che purtroppo è andato in parte perduto nella versione finale del film. “Le ore di ripresa erano troppe, non era possibile tenerle tutte, anche alcune scene in realtà molto autentiche che mi hanno raccontato questi anziani protagonisti”. Come quando, nel giorno in cui gli operai entrarono in Fiat di notte per far uscire i crumiri che erano andati di soppiatto a lavorare, molti di loro si fermarono nelle stanze degli impiegati per approfittare del telefono, chiamare a casa, al Sud, per tranquillizzare parenti e amici. Peccato che queste scene siano state tagliate perché avrebbero sicuramente dato un po’ più di sale alla rappresentazione della lotta, che appare tra l’altro molto più “nonviolenta” di quanto non lo fu dal vivo. Evidentemente anche questo avrebbe infastidito il “mercato” e chi, come Labate, vorrebbe mantenere la sua autonomia intellettuale e artistica è costretto a cedere un po’ di più. A favore di una storia un po’ melodramma, come la stessa Labate afferma, perché ispirata “dai romanzi di John Fante, di cui ho letto tutto” e un po’ affresco tratteggiato in grandi linee dell’intreccio tra pubblico e privato. C’è chi erroneamente ha voluto percepire nella figura di Emma “l’irrazionalità dell’essere femminile” o anche alcuni stereotipi sul ruolo delle donne. “In realtà ho costruito il personaggio di Emma come contraddittorio, perché volevo propone la donna precaria sia nel lavoro sia nel privato, una donna moderna direi. Senza esprimere una identità precisa e forte” – conclude Labate – “ ma in generale penso che le donne siano più pratiche, più con i piedi per terra”.
Sicuramente alcune donne continuano a fare da Cassandra, come la bella anonima giovane operaia che fuori dai cancelli aveva già capito come sarebbe andata a finire.


pubblicato su Aprile mensile, www.aprileonline.info





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