Barbara Bonomi Romagnoli | Sono andato a Cancún perché non dovevo farlo – intervista a Paolo Rossi
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Sono andato a Cancún perché non dovevo farlo – intervista a Paolo Rossi

Il tempo di riprendersi dal fuso orario, volo Cancún-Milano, e subito a Roma: Paolo Rossi è tra gli amici che hanno partecipato al concerto dei Têtes de Bois per Carta. Tra una prova suono e l’altra, ci ha raccontato la sua «prima volta» in Messico.

Come mai hai deciso di andare a Cancún?
La premessa è d’obbligo, perché prima di tutto c’è una questione caratteriale: quando qualcuno mi dice «chi te lo fa fare?», lo faccio. E quindi sono partito, così come altre volte ho fatto quel che mi veniva sconsigliato. E a volte credo di fare delle cose giuste, soprattutto per chi fa un lavoro come il mio. Io racconto storie. Lo faccio a partire dalla strada, quindi non posso non tornare sulla strada. Cancún era il cuore della strada.
In più, vivere una esperienza simile in prima persona ti aiuta nel ritorno a casa. Quando torni a navigare su Internet, a leggere dei libri, gli articoli di giornale o a vedere la tv dai un valore diverso a quello che «passa».

Qual è stata la prima cosa che ti ha colpito?
Come prima cosa, mi ha colpito lo scalo che abbiamo fatto negli Stati uniti: considera che era a ridosso dell’11 settembre. Vedi con i tuoi occhi tutte queste misure per l’antiterrorismo, un modo di difendersi che è di per sé una debolezza. Alla faccia della libertà della persona… Finito il check in, io e un altro volevamo fumarci una sigaretta, abbiamo chiesto se c’era un posto dove si potesse fumare e un agente ci ha detto di andare oltre una porta. Arrivato alla porta, io mi son girato e gli ho detto «ma così usciamo fuori dall’aereoporto» e quello, di rimando, indicando il mio piede sulla linea della porta, dice: «Sei già fuori dall’aereoporto…». Questa è la culla della democrazia.
Poi, da appassionato di western [ho visto tutto: serie A, B, C, C1…], ero impressionato all’idea di vedere l’esercito messicano. Avevo in mente le scene di Fort Alamo o i film di Sergio Leone. E infatti a vederlo è stato inquietante. Era ben allineato, però rispetto a Genova sono stati dei gentlemen. Tra l’altro erano un po’ di anni che non andavo a manifestazioni di questo tipo. E questa è stata una esperienza diversa. Un conto è andare a protestare, tanto per esserci. Un conto è vedere persone che vanno a manifestare, come i campesinos, non per forzare simbolicamente la zona rossa ma per fermare la riunione del Wto. I campesinos dovevano difendere la loro vita, il loro diritto a vivere. Tutto ciò lo senti, lo respiri e lo vedi. È qualcosa che resta indelebile nella memoria.
In certi momenti ho avuto la sensazione che i nostri problemi italiani, seppure importanti, fossero davvero distanti, se accanto c’è chi ha bisogno di acqua per crescere i suoi figli…
Noi viviamo nel benessere, che non esclude la scelta di campo o quella che chiamiamo «coscienza», ma che anestetizza altre parti del corpo: la gola, lo stomaco, il cuore… i campesinos manifestavano prima di tutto con la gola, lo stomaco, il cuore.

Hai avuto paura?
Sì, in un certo senso ho avuto paura. Vedere da vicino i coreani, e poi la morte del sindacalista. All’inizio non sai cosa fare, dove andare. Non capivo cosa avrebbe fatto l’esercito, il gruppo dei black bloc. Dalla linea rossa sparavano lacrimogeni senza fumo. Pensi di tutto, che potresti avere anche tu dei figli ai quali non sapere come dare da mangiare… Io avevo un motivo importante per essere lì, ma non sufficiente a darmi tranquillità. Non era un momento per mettermi alla prova, ma certo gli esami non finiscono mai… E piano piano ti adegui alla tensione, all’essere inquieto.

Cosa pensi dell’esperienza zapatista, la conoscevi prima di andare in Messico?
A dir la verità non conosco approfonditamente la vicenda… non mi sento di esprimere un parere. Mi hanno colpito molto i campesinos che, già nella prima manifestazione, stavano per entrare e sfondare la linea rossa, forse non è successo proprio per via dei black bloc… abbiamo vissuto quei momenti con una telecronaca folcloristica ma al tempo stesso molto utile.
Il Messico mi è sembrato di fatto una colonia statunitense, molto più di noi. E rispetto a queste esperienze zapatiste mi sento solo di dire che, come credo valga ovunque, sia più facile mettersi d’accordo su chi devi derubare, che non su come difenderti, per non farti derubare.

E del movimento antiliberista che si è ritrovato lì a Cancún cosa pensi?
Il problema reale sono i media ufficiali, cercano i titoli più che i contenuti, non le motivazioni storiche, reali. Sono convinto che le cose non finiscono, cambiano. Certamente, se ventidue paesi poveri hanno detto no è stato anche grazie al movimento globale.

Un episodio che potresti «mettere in scena»?
A Milano ho perso almeno quattro cellulari nei taxi e non ho mai ricevuto una chiamata… in Messico ne ho perso uno e il tassista mi è corso dietro. Addirittura mi ha raggiunto all’inizio del corteo per restituirmelo! È stato un fatto simpatico, un altro volto del Messico.

Possiamo dire che Paolo Rossi ha in comune con Carta la voglia di raccontare storie che nascono dalla strada… magari è anche un aspirante socio?
Se qualcuno mi dice di non farlo…

pubblicato su Carta, www.carta.org



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