Barbara Bonomi Romagnoli | Sui maschi, ancora
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Sui maschi, ancora

Introduzione allo speciale pubblicato su Leggendaria 115

 

Mettersi in discussione costa fatica, pubblicamente ancora di più, ma farlo insieme ad altri restituisce il senso di quello che siamo e vorremmo essere.

É forse per questo che il numero di Leggendaria dedicato ad indagare la cosiddetta “questione maschile” ha suscitato vivaci dibattiti, commenti e critiche, riflessioni e spunti per non chiuderla lì, la discussione, perché non fosse una semplice parentesi, uno squarcio veloce fra letterature e femminismi. Da qui questo nuovo focus, con altri interventi, molto differenti fra loro eppure con un filo comune che, mi pare, balzi subito agli occhi: per proseguire a ragionare di “uomini nuovi” è necessario un cambiamento radicale, uno smarcamento totale dai dispositivi eterodiretti nei quali nasciamo tutte e tutti, un desiderio rivoluzionario capace di ri-generarci anche oltre i generi.

Significa, per dirla con le parole di Tommaso Giartosio, sfidare frontalmente il patriarcato che, contrariamente a quanto è stato detto anche in riferimento ai recenti fatti di Colonia, a me non sembra per niente morto né scricciolante. Né tantomeno in crisi, come sottolinea Lorenzo Gasparrini. In molte riteniamo che abbia mutato volti e modalità, probabilmente anche gli strumenti del suo potere, e non ha certo diminuito in aggressività e violenza, travolgendo non solo i corpi delle donne. Proprio per questo, come sostengono le donne di Lucha y Siesta, nell’intreccio di classe e genere, alla questione femminile si annoda quella maschile. Di un maschile che certamente non brilla per forte ed originale reazione nei momenti in cui, da Colonia alla polemica sulla “gestazione per altre/i”, avremmo bisogno di molte più voci maschili, autorevoli e autodeterminate, capaci di fermare i discorsi da bar, di capovolgerli e sovvertirli, di indicare vie per alleanze fertili fra movimenti femministi e uomini consapevoli.

Oltre alle scontate proteste femministe, avrei voluto vedere scendere in piazza migliaia e migliaia di uomini a smentire la pretesa dei maschi occidentali (cristiani e musulmani) di tutelarci dallo straniero; a raccontare le loro storie come padri, etero o gay, che scelgono una genitorialità allargata, perché anche di questo si dovrebbe parlare quando invece si etichetta tutto come “utero in affitto”, quasi che poi quella bimba o quel bimbo divenissero subito adulti; a provare a nominare le loro emozioni dinanzi all’ennesimo femminicidio; a gridare forte insieme a noi femministe che l’ingerenza del Vaticano nella politica del nostro paese è inaccettabile, che alla obiezione di coscienza si dovrebbe rispondere con una disobbedienza civile di massa. Questo silenzio assordante degli uomini lo ha ben descritto Davide Rostan, pastore valdese a Susa, che in un commento su Colonia scrive: «Forse come suggerisce Musa Okwonga, giornalista afro-tedesco, sul Guardian, potremmo prendere questo ennesimo atto di violenza contro le donne, perché noi uomini, senza guardare al nostro background etnico, religioso o culturale, aprissimo una riflessione sul nostro rapporto con il corpo e con la violenza senza accontentarci di chiamarci fuori dicendo che non abbiamo mai compiuto azioni di violenza (e ci mancherebbe) e senza delegare la battaglia per cambiare questa cultura del “prendere” alle nostre amiche, compagne, madri e sorelle».

Poche le voci limpide come questa, per il resto si registra ancora una forte timidezza, o forse è tentennamento, confusione, incertezza e paura, ma l’orizzonte è ricco di esperienze costruttive, di rivoluzioni possibili su cui rilanciare senza nasconderci le difficoltà e contraddizioni.

Giartosio parla di complicità, di «sguardo patriarcale e misogino che caratterizza ancora non pochi omosessuali» eppure intravede lì «una promessa, una possibilità di dialogo con i maschi eterosessuali (e ovviamente non solo con loro)»; Gasparrini indica «il paradosso di lottare contro il patriarcato da dentro il patriarcato» perché «opporsi al patriarcato, al sessismo, alla violenza non lo si fa “per le donne” – come continua a dire una ipocrita versione di politcal correctness tipica della sinistra al potere: lo si fa per noi, per avere la libertà che il patriarcato ci toglie ripagandoci con i vantaggi della sua distorta idea di potere maschile»; le amiche di Lucha Y Siesta ritengono che «il patriarcato abbia semplicemente assunto sembianze paternalistiche, contribuendo così a un velocissimo regresso sociale e culturale e ad un immobilismo in cui si innestano le varie forme di violenza», motivo per cui è ancora più urgente lavorare tutti assieme per «riconoscere nei nostri spazi e nelle nostre pratiche politiche il terreno fertile per il mantenimento del patriarcato» e nominano l’esperienza non solo romana di assemblee pubbliche sulla violenza maschile nei luoghi misti di sinistra e antagonisti, in quelli che vorremmo che fossero i nostri luoghi. E perché lo siano in tempi brevissimi, continuiamo a dialogare, a leggere esperienze di altre e altri che come noi camminano dubitando.



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