Barbara Bonomi Romagnoli | Tacciano le madri, ascoltiamo le figlie
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Tacciano le madri, ascoltiamo le figlie

Cominciare dalla fine, senza svelare la trama, per andare a leggere “la loro storia”: cinque donne, qualche uomo, un’isola su cui si ritrovano tutte, una voce narrante che infine recita “lei sa di cosa ho bisogno. Sa che per esistere, per avere la giusta consapevolezza di te, devi possedere una storia che ti precede (e che ti continua, ha detto una volta), perciò non ho mai dovuta pregarla. È stata lei a spiegarmi da dove vengo e perché e a raccontarmi della repubblica delle madri”.

È qui, nella storia che ognuna di noi ricostruisce, che risiede, almeno così mi è parso, il senso profondo dell’ultimo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, L’isola delle madri [Mondadori, 2020].

Una scrittura fantastica, come preferisce definirla Cutrufelli, non di fantascienza, perché non c’è nulla nel racconto che non accada già nel nostro presente.

Il pianeta terra estremamente sofferente per l’inquinamento, per lo sfruttamento delle risorse naturali e un turbocapitalismo che ha sfregiato i luoghi della cultura e quelli del vivere comune, alimentando disuguaglianze, riducendo diritti e reprimendo possibili ribellioni. Un intreccio di vite che si snoda in paesi mai nominati ma facilmente riconoscibili, fra l’Est Europa e il Mediterraneo, con un ritorno anche metaforico alle isole fondative della civiltà occidentale, a quelle mitologie che avevano tracciato un destino umano che sembrava irreversibile e che mai come oggi appare invece in continuo mutamento.

Uno scenario che, involontariamente, sfiora l’attualità della quarantena e della pandemia, ma qui la malattia è un’altra, è la sterilità umana considerata la ‘malattia del vuoto’ intesa “come qualcosa che si è prodotto nelle nostre cellule”, spiega Cutrufelli, andando a minare del tutto la riproduzione della specie.

Un fatto reale portato alle estreme conseguenze, così tanto che a volte nello scorrere delle pagine manca l’aria e ci si sente un po’ con le spalle al muro, quasi che la diminuzione delle nuove nascite sia da leggere solo come un enorme cataclisma e non, anche, come scelta di altre vite possibili.

Che fare dunque dinanzi al rischio del vuoto totale? Fra chi – anche nel romanzo – pensa che non sia così necessario riprodursi perché il mondo è pieno e chi ripete che è solo Dio a dare la vita, le personagge di questa storia propongono, se lo si vuole, di ricorrere alle biotecnologie e alla scienza. Una soluzione che spesso nella lettura appare come l’unica possibile, quasi non fosse invece auspicabile un cambiamento negli stili di vita che tanto influenzano anche la capacità, per chi lo volesse, di riprodursi.

Non è un tema casuale, per chi come Cutrufelli è impegnata in prima persona nei movimenti femministi e che ha scelto la narrativa come terza via – fra politica e dogma – per offrire alla discussione comune spunti di riflessione.

Sulla maternità, sulla gestazione per altre e altri, sulla difficoltà di definire oggi ‘la madre’ quando, afferma la scrittrice, è già in essere una scissione in tre figure: la madre donatrice, la madre gestante, la madre legale. Dovremmo forse dire donna, al posto di madre: donna che dona l’ovulo, donna che lo fa crescere nel suo corpo, donna che si prende cura del nuovo essere e lo fa diventare una persona, senza che il corpo sia minimamente chiamato in causa.

Un ripensamento complessivo dei ruoli e il riconoscimento che, non solo nella comunità umana, la differenza è nella relazione che si instaura. Relazione d’amore e di responsabilità, di rispetto e curiosità, di ascolto reciproco.

Ecco perché allora è arrivato il tempo di uscire da una discussione che nel mondo reale è solo fra madri, a fatica sono ammesse le non madri, per ascoltare la voce delle figlie e dei figli nati fuori dal tradizionale incontro fra uomo e donna, per dare parola a chi una condizione del tutto diversa la vive già e vuole raccontare la sua storia, a modo suo.

Chissà allora, suggerisce Cutrufelli, che non servano parole nuove, visto che quelle note non riescono a significare la realtà. Lei ne inventa alcune nel suo romanzo prendendo ispirazione dal linguaggio che si sta diffondendo fra chi nasce grazie alle biotecnologie, laddove gli intrecci familiari invitano a preferire il termine ‘zia’ per la donna gestante o cugina/o per le sorelle/fratelli non di sangue. Peccato, ma su questo con Cutrufelli ci confrontiamo da tempo, che la riflessione sul linguaggio non contempli del tutto anche il lessico sessuato e mi faccia sobbalzare nel leggere che “lei è un medico” o “caporeparto” riferito ad alcune protagoniste della storia. Cutrufelli ritiene che alcune parole sessuate siano ancora un inciampo per la lettura e che la scrittura romanzata abbia bisogno di tempi più lunghi per tenerne conto.

Senza dubbio la narrativa le ha permesso di tradurre interrogativi complessi in una storia che solletica pian piano chi legge e con accuratezza scandaglia l’anima delle protagoniste alle prese con “un sorriso che sembra affiorare da complicate negazioni interne”. È invece benevolo lo sguardo che la scrittrice posa sul ruolo del padre, che, come spesso nella vita reale, appare spettatore balbuziente, quasi giustificato se “è solo dentro i suoi pensieri che un padre (biologico o putativo che sia) può fare il nido per suo figlio, non è così?”. Del resto, per il momento, ricorda Cutrufelli, senza il loro seme ancora non c’è nascita possibile. Ma tutto il resto sì, considerato il prezzo pagato dalle donne prima, durante e dopo la nascita, in ogni epoca e ad ogni latitudine, chiamate poi a riparare anche i danni prodotti da quella metà del cielo che avvelena i pozzi e i fiumi.

Ed è proprio l’eco di un racconto sui pesci mutanti che nuotavano nelle acque avvelenate del fiume – racconta l’autrice in una breve nota finale – ad averla spinta a scrivere questo romanzo, non l’attualità ma piuttosto un lento lavorìo interiore suscitato dalle storie che le raccontava il padre scienziato a lei bambina sugli effetti dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento, delle modificazioni genetiche dei cibi e l’uso di pesticidi.

Una storia di decenni fa che – a volerla ascoltare – lasciava già intravedere il futuro che stiamo vivendo ora.

 

 

pubblicato su Diatomea.net

Questa recensione esce in simultanea su La Bottega del Barbieri «perchè – spiega Barbara – con le amiche e gli amici di Diatomea e della Bottega del Barbieri siamo per la condivisione e il fare rete, e allora anche le riflessioni su libri, femminismi e cultura possono essere pubblicate in entrambi i luoghi senza aver bisogno di copyright».



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