Barbara Bonomi Romagnoli | femminismi
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La rivoluzione femminista

di Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi

L’invito che ci ha portato all’università estiva di Attac Italia indicava anche una via di riflessione: “ci interesserebbe un intervento che non ci racconti (solo) il movimento delle donne, che non faccia (solo) la storia di Non una di Meno, ma che invece ci aiuti a capire perché la società che vogliamo o è femminista o non è”. Un suggerimento certamente elegante ma che tradisce un atteggiamento molto comune anche negli ambienti progressisti, ovvero gli uomini hanno sempre bisogno di spiegarci le cose, di dirci cosa è meglio fare e come farlo, con l’atteggiamento, nei nostri confronti, di chi elargisce una libertà che ci sembra spesso condizionata.

Paola Turci: «La felicità ha bisogno di partecipazione»

«… in mezzo a questa confusione

tenerti la mano è la mia rivoluzione»

«E allora dimme te / Che sto ancora qui a combattere / Pe’ ’na guera de poveracci / Che s’ammazzano de baci / E finiscono pe’ stracci»: è potente, e taglia l’aria che minaccia pioggia, la versione acustica di questa canzone dedicata da Paola Turci ad Anna Magnani, e il romanesco è perfettamente in sintonia con il giardino del Buon Pastore, cuore della Lungara. La graffiante voce di Turci incanta con una scaletta di canzoni che parlano di dolcezza e amore, di ribellioni fatte con la tenerezza, perché «a chi alza i toni, noi rispondiamo con gentilezza, determinate ma gentili», chiosa la cantautrice dopo aver accennato alla questione dei migranti in mare. Siamo alla Casa Internazionale delle donne, che il 20 giugno scorso ha dato il via alla sua «Chiamata alle arti», iniziativa estiva per continuare a reagire contro ogni ipotesi di sfratto sostenuta dall’amministrazione capitolina, dove – vale la pena ripeterlo ancora – governa la prima Sindaca della lunga storia della Capitale.

 

Quei libertari anni ‘80, quando essere trans significava non volere la normalità

«Quando si cominciò a rivendicare, prima che i diritti, il diritto di esistere»: finché non lo leggiamo nero su bianco, non ci riflettiamo quasi mai sul nostro stare al mondo, su chi può esercitare questo diritto senza colpo ferire, senza pensarci su. E chi, invece, ha dovuto aggrapparsi a tutto per arrivare a mettere al centro del discorso – pubblico e privato – il proprio diritto a esistere. Come trans e, soprattutto, a nominarsi come esperienza umana significativa. Sì, perché non è certo semplice dare un senso alla propria vita se c’è una intera società che la nega, se non sono reperibili documenti, se il mondo attorno ti etichetta come capricciosa, sempre e comunque malata e fuori dalla norma.

 

Lavorare con il corpo: dialoghi tra femministe e prostitute

Sì, senza punto interrogativo: Sex work is work. E come tale va accolto. Non significa far propria quella scelta ma riconoscerne la dignità al pari di altre, accettando almeno di fermarsi ad ascoltare cosa hanno da dire le dirette e diretti interessati. E senza dover ogni volta ricordare che la tratta e lo sfruttamento sono altro e che le/i sexworker sono in prima fila nel combattere illegalità, soprusi e violenze. Sì, è vero che il lavoro sessuale scelto senza costrizione riguarda una minoranza di persone, ma sfuggire al confronto perché riguarda poche persone è come dire: non ci occupiamo più delle minoranze etniche o delle femministe perché non sono la maggioranza della popolazione.

 

Strade e piazze che conservano memoria dei discorsi tra donne

«Perché coltivo una credenza: che le strade e i sentieri conservino le impronte di chi ci è passato. Credo che fosse l’alba di una settantina di anni fa quando per questa strada hanno camminato in ansia, guardandosi attorno, il nonno, la nonna, lo zio e la mia bellissima zia Lyda, incinta. Passi affrettati e atterriti, i loro, verso il convento delle suore che li avrebbe nascosti e protetti dalle bande fasciste e naziste che spadroneggiavano in città, sempre a caccia di ebrei. Guardo le loro impronte. Ripercorro la loro strada. I settant’anni trascorsi da allora mi sembrano pochissimi, si sente ancora, qui, il loro batticuore. Insieme al mio».

Si sente eccome il battito del cuore fra le pagine di questo agile e al tempo stesso così denso volume, Cartoline da Roma (Edizioni Unicopli, 2017], scritto da Lidia Campagnano, giornalista, saggista e voce autorevole del femminismo italiano. Si sente l’occhio attento di chi romana non è, di una donna che ha vissuto Roma con partecipazione e amicizia, con il desiderio di attraversarla per conoscerla davvero, alla ricerca di una mappa che ne restituisse la sua «trama storica, politica, ideale».

Aborto, surrogata, prostituzione, velo Libere tutte, di fare le proprie scelte Questo è femminismo

«Davanti al Grand Canyon, Thelma e Louise sono costrette a fermarsi. Alle spalle infinite macchine della polizia, di fronte il vuoto. Si guardano, sorridono, intrecciano le loro mani e le protendono verso l’alto, spingendo sull’acceleratore. L’ultima immagine è quella di loro due nell’auto sospesa nel vuoto. […] Muoiono perché quello che è mancato alla loro libertà è la costruzione di un nuovo ordine simbolico, una volta girate le spalle a quello maschile» [pag 13, Libere Tutte]. 

La mancanza come misura della libertà: è forse questa una delle possibili chiavi di lettura di «Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne nel nuovo millennio» (Minimum Fax, 2017), volume molto agile e ricco, scritto a quattro mani da Giorgia Serughetti, ricercatrice torinese, e Cecilia D’Elia, attivista romana. La mancanza – variamente declinata – alla base delle diseguaglianze sociali ed economiche che fortemente colpiscono il genere femminile, con conseguenze dirette sulle scelte da fare, sulla possibilità di accedere ai propri diritti, sulla piena cittadinanza ad agire. A partire da qui, D’Elia e Serughetti hanno scelto di affrontare cinque temi in particolare (aborto, gestazione per altri, matrimonio, prostituzione e velo), tutti hanno a che fare con la «libertà» delle donne. Quella facoltà – ma anche un sentimento – così complessa e desiderata, respinta e inseguita, personale e collettiva, che le autrici hanno cercato di dipanare in una riflessione lontana dai soliti estremi del dibattito a cui siamo abituate: Non crediamo né al mito neoliberale dell’individuo proprietario di sé, né alla prescrizione paternalista di qualche bene superiore per le donne – affermano convinte – Potremmo anzi dire che tra il paternalismo dello Stato e il laissez-faire del mercato c’è di mezzo la libertà delle donne», con tutti i suoi dilemmi da sciogliere.

 

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