Barbara Bonomi Romagnoli | Violenza sulle donne: chiamala col suo nome, si dice ginocidio – Un libro e un dossier
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Violenza sulle donne: chiamala col suo nome, si dice ginocidio – Un libro e un dossier

I dati non mancano, ufficiali e non, solo che sono schiacciati tra una generale indifferenza, la massima spettacolarizzazione – come sta accadendo nell’ennesimo caso di una giovane donna trovata morta – o restano alla mercè della cronaca nera. L’unico fatto che non cambia è la violenza contro le donne, che è sistematica ed endemica alla società che abitiamo, trasversale a ogni ceto, colore e lingua. Un fatto assolutamente evidente, eppure non c’è verso di farlo diventare qualcosa che turbi davvero dal profondo le coscienze, le smuova e le sproni a cambiare radicalmente l’andazzo.

Neanche i dizionari si prendono la briga, allo stato delle cose, di registrare nuovi vocaboli per descrivere meglio la realtà e in questo caso è un autorevole linguista, Tullio De Mauro, a riconoscere che sarebbe il caso di fare un aggiornamento. Perché quando si parla di violenza alle donne, si dovrebbe usare senza mezzi termini la parola ginocidio, come spiega in un piccolo ma denso volumetto Daniela Danna, ricercatrice di Studi Sociali all’Università degli Studi di Milano.

Nel suo “Ginocidio. La violenza contro le donne nell’era globale” (Eleuthera, 154 pagine, 14 euro), Danna recupera un vocabolo coniato dal femminismo degli anni Settanta perché vuole indicare non solo gli assassini di donne “ma anche tutta la violenza che si rivolge contro l’essere donna, contro il femminile, a causa del disprezzo sociale e della brama di controllo sui corpi femminili da parte del sistema di potere maschile, il patriarcato. E dunque gli esecutori di questa violenza, che certo può spingersi anche fino all’omicidio, possono essere uomini ma anche donne”.

Questo ultima precisazione ovviamente intende togliere di mezzo il mito della bontà femminile e simili, ma resta il fatto che la maggior parte delle donne vittime di violenza lo sono per “mano maschile”.

Per sfuggirvi bisognerebbe andare a vivere dai Wape in Papua-Nuova Guinea o nei villaggi Mayotte alle Comore, ma chissà che anche lì non arrivino i disastri della globalizzazione. L’interrogativo, infatti, da cui parte Danna è se il diffondersi del benessere economico, che dovrebbe essere uno degli effetti della mondializzazione “assicurerà il miglioramento di status di coloro che stanno al fondo della scala sociale, come le donne”. Nella prima parte del testo l’autrice ragiona attorno a questa domanda riportando le tesi a favore e contro, mentre nella seconda parte entra nel merito di situazioni specifiche, come quella italiana e quella scandinava, ma ci racconta anche quel che avviene nel mondo musulmano.

Come più volte sottolinea Danna “le conseguenze della violenza non sono solo dolore e danni fisici, ma anche disagio psicologico: si tratta di atti di invasione della propria persona che appaiono in modo più evidente e doloroso nella violenza sessuale, ma in realtà anche negli altri tipi di violenza vi è questo senso di perdita di sé”. E soprattutto il ginocidio è solo “in modo apparente, sensazionalistico, il problema numero uno per valutare la posizione sociale delle donne”, considerando che nella maggior parte delle situazioni la violenza è subita perché la donna si ribella al ruolo che le viene imposto, disobbedisce alla legge del padre o perché è il simbolo di un movimento di lotta.

Qualcosa sta cambiando, secondo Danna, grazie ad alcuni cambiamenti avvenuti nelle diverse società e alle nuove leggi, “sia dal lato delle sanzioni che dal lato dell’istituzione e del finanziamento pubblico dei rifugi antiviolenza”. Anche se proprio dell’insufficienza di molte norme e della mancanza di un approccio trasversale e internazionale per mettere fine a questo crimine parla un interessante dossier redatto da un gruppo di lavoro dei Giuristi democratici dal titolo “Violenza sulle donne: parliamo di femminicidio”, nel quale si intende dare “spunti di riflessione per affrontare a livello globale il problema della violenza sulle donne con una prospettiva di genere”. È un fatto politico e sociale, dicono le autrici del dossier, e si deve partire dall’assunto che nel parlare di femminicidio “si vuole intendere in un’unica sfera semantica di significato ogni pratica sociale violenta fisicamente o psicologicamente, che attenta all’integrità, allo sviluppo psico-fisico, alla salute, alla libertà o alla vita della donna, col fine di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla sottomissione o alla morte della vittima nei casi peggiori”. Insomma, un altro modo per dire ginocidio.

Il problema resta il che fare, dopo aver appurato fatti e cause che li determinano. Danna e i giuristi democratici concordano nel dire che le guerre, le politiche neoliberiste e la rinascita dei fondamentalismi non facilitano il compito di chi potrebbe intervenire energicamente, ossia le istituzioni. Ma quest’ultime sono ancora appannaggio degli uomini. Se fossi una parlamentare farei un bel regalo ai miei colleghi, recapiterei loro un bel plico con una copia del dossier e una del libro di Danna.

Magari così si parlerà di qualcosa d’altro oltre che di Vallettopoli e dintorni.


Pubblicato su Liberazione, www.liberazione.it



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